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Crotone fu uno spettacolo.

Non appena scendemmo dalla macchina che ci aveva portato alle prove, la gente assalì Leonardo, cercando di prendere un pezzo di lui, un lembo della sua camicia blu, un bacio, un abbraccio, una foto rubata di straforo, sfuocata.

Presi posto tra le prime file, perché, questa volta, volevo vedere il concerto da sua fan, da ammiratrice, tra le ragazze che, come me, pensavano che quel ragazzo fosse un dono del cielo, una benedizione.

Volevo capire, comprendere, volevo essere parte di quell'amore, non esserne esiliata.

E c'era così tanto amore, intorno a me, cartelloni colorati, accendini accesi e tremolanti nell'aria fresca della sera, cori appassionati, lacrime, tante lacrime, sorrisi estatici e mani giunte, applausi, grida, calore, un calore che non avevo provato mai prima di allora. Era un po' come sentire un grande abbraccio, un'onda pazzesca travolgente, qualcosa che non si poteva frenare, che soffocava, che si muoveva come un terremoto.

Il concerto scivolò via veloce e proprio come me l'aspettavo: Leo fu impeccabile, come sempre, cantò bene e il pubblico fu appassionato ed entusiasta dalla prima all'ultima canzone.

Scivolai silenziosamente come un fantasma dentro alla macchina prenotata dal tour manager e mi accoccolai sul sedile posteriore, attendendo che finisse di salutare i fan, firmare gli autografi e posare per una serie infinita di fotografie.

Lo osservai oltre il vetro scuro della macchina, mentre i minuti scorrevano al rallentatore: era attento, sorridente, era bellissimo, era tutto ciò che avessi mai desiderato nella mia vita. Tutti i giorni trascorsi lontani mi avevano convinta che quella distanza non poteva essere colmata da niente al mondo. C'eravamo solo noi.

Appoggiai la mano sul vetro e continuai a guardarlo con occhi così innamorati da essere quasi incapaci di vedere altro: era tutti i miei giorni, era l'aria che respiravo, era nei miei sorrisi, era lontano, ma al tempo stesso vicino, era il mio amore, l'unico che avessi mai amato, l'unico che avrei mai potuto amare.

Il dolore che aveva conquistato ogni piega del mio corpo, fin dentro alle ossa, ora non era altro che amore allo stato puro: ero stata pazza, ero stata insensata e stupida, ma ora ero certa che tutto sarebbe andato bene. Avrei lottato con tutte le mie forze per far funzionare le cose, per sistemare la mia testa e per placare quel vento ribelle che aveva scompigliato tutti i miei sentimenti, le mie idee e anche il mio modo di ragionare.

Salì in macchina qualche tempo dopo, altrettanto furtivamente, non sapevo con esattezza quanto tempo trascorsi da sola al buio, mentre l'autista fumava l'ennesima sigaretta.

Batté sulla spalla dell'autista che partì subito, con un lieve cenno del capo. Intorno a noi, decine di persone continuavano a sbattere le proprie mani contro i vetri scuri della macchina, per certi versi faceva paura, per altri era entusiasmante: quell'amore spaventava ma era anche enorme, incomprensibile, senza confini.

-Tutto bene? - chiesi appoggiando una mano sul suo braccio, guardandolo preoccupata: mi accorsi che aveva qualche lieve graffio sulla pelle abbronzata, aveva perso un bottone della camicia e i capelli erano sconvolti.

Mi guardò con aria stanca, forse, per la prima volta, mi rendevo conto di quanto fosse difficile affrontare tutta quella situazione: restare lontano da casa, saltare da una città all'altra senza rendersi conto di che giorno fosse o come si chiamasse la città stessa.

Non era solo questione di fare un concerto: doveva sempre essere all'altezza delle aspettative, cantare bene e non sbagliare, mai, nemmeno una parola, nemmeno una nota, doveva essere sorridente, disponibile, non poteva permettersi di annoiarsi, dimostrare di aver voglia di tornare a casa o far trasparire stanchezza o malessere, nostalgia, solitudine.

TrentacinqueWhere stories live. Discover now