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Quella sera stessa, ritornai a casa piuttosto presto: ero troppo stanca e volevo recuperare qualche ora di sonno. Ma mi stavo raccontando una bugia, non volevo restare in ufficio perché non ero concentrata e avevo passato tutto la giornata senza combinare nulla di buono.

Aprii la porta appoggiando il mazzo di chiavi all'ingresso e mossi qualche passo attraverso la grande sala avvolta dalla penombra.

-Sono a casa – dissi, senza ottenere alcuna risposta.

Entrai nel mio studio, Giacomo era seduto, come al solito, alla mia scrivania: aveva spostato le carte e le pratiche tutte di lato, mescolandole senza attenzione, aveva aperto il mio portatile e ora era tutto intento a trafficare su internet.

-Ciao – lo salutai aggrottando la fronte.

E dire che gli avevo chiesto circa quelle tremila volte di non spostare niente delle mie cose: il mio disordine era metodico e quello era un portatile, poteva usarlo in qualsiasi altra zona della casa, perché proprio nel mio mondo?

Alzò una mano per ricambiare il mio saluto, mi appoggiai allo stipite della porta, senza dire nulla, solo dopo due minuti buoni, si degnò di alzare lo sguardo verso di me.

-Che c'è? - chiese allargando le mani, impaziente.

-Non mi hai salutata – mormorai senza distogliere lo sguardo dai suoi occhi bellissimi, concentrati, velati di stanchezza.

Aveva tolto gli occhiali da vista e aveva l'aria un po' provata: si stava dedicando anima e corpo a quel progetto e io non avrei dovuto disturbarlo.

Ma ero così stanca e lui non aveva nemmeno alzato lo sguardo per lanciarmi un'occhiata.

Una sola mi sarebbe stata sufficiente: non era, poi, che chiedessi molto, solo quel minimo di attenzione che mi avrebbe soddisfatta, per qualche giorno, per qualche ora, per un po'.

-Certo che ti ho salutata, solo che non mi hai visto – scrollò le spalle.

-No, non mi hai nemmeno guardata.

-Vuoi litigare? - chiese esausto, come se solo il porre quella domanda lo avesse reso debolissimo. -Ovviamente no. - risposi, rimanendo immobile, in attesa di una sua reazione, qualsiasi essa fosse: ero pronta a tutto, pur di non restare ferma lì, a due passi da lui eppure lontanissima.

-Meglio così. - abbassò lo sguardo, tornando a concentrarsi sul monitor di fronte a sé.

Perché diavolo non mi chiedeva se volevo dare un'occhiata al video?

Perché, visto che gli avevo chiesto di mandarmelo per posta elettronica, non mi chiedeva se mi era piaciuto o cosa ne pensavo?

Perché, soprattutto, non mi chiedeva perché avessi voluto vederlo?

Avrei potuto spiegargli che me lo aveva chiesto Leonardo e, forse, si sarebbe sentito in colpa.

Ma perché dovevo sperare di farlo sentire in colpa?

Era palese che non gli interessasse il mio giudizio, era ovvio che non riteneva importante quello che avevo da dirgli: era chiaro che non voleva sentirmi parlare, non sul suo lavoro, almeno, anche se non capivo perché anche se faceva male l'idea di essere da sola, anche quando ero accanto a lui, di fronte a lui, alla ricerca disperata del suo sguardo.

Mi avvicinai alla scrivania e mi misi platealmente a riordinare le mie pratiche, i fogli sparsi ammucchiati alla rinfusa accanto a lui, i post-it e gli appunti disordinati, qualche penna senza il cappuccio.

Alzò un sopracciglio, sbuffando:

-Sto lavorando.

-Finalmente – non potei trattenermi dal commentare e mi pentii subito, perché gli avevo appena detto che non volevo litigare, eppure mi stavo comportando come se non volessi fare altro. Volevo litigare con lui? Forse.

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