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Arrivai a casa e mi feci il bagno.

Giocai come una ragazzina, tra le bolle profumate del bagnoschiuma, sorridendo alle forme strane che riuscivo a creare con la spuma bianca, soffiandola in aria, sorseggiando il mio vino rosso, pensando a Leonardo che stavo per rivedere, al suo sorriso, a quello sguardo così dolce, al suo abbraccio.

Pensando che, in un modo o nell'altro, quella sera avrei risolto i miei problemi: nel bene o nel male, avrei saputo che cosa ne sarebbe stato, di me.

Di noi.

Da una parte, avevo paura, una paura tremenda che mi faceva sobbalzare il cuore, ma dall'altra non vedevo l'ora di rivederlo e di affrontarlo, di parlare di noi e di decidere del nostro futuro, come rapporto, come coppia, come amici, come complici, come compagni di scorribande, come innamorati, ancora non lo sapevo e forse non era neanche così importante.

Uscii dalla vasca come una creatura della notte, appoggiando la punta dei piedi sul marmo gelido del bagno, avvolgendomi nell'accappatoio bianco di spugna che sapeva di ammorbidente alla vaniglia ed inspirando profondamente: ero molto nervosa ed era inutile negarlo.

Presi un caffè, mi lavai i denti, fumai una sigaretta.

Ovviamente, mi lavai i denti di nuovo: accidenti a me che non controllavo più nemmeno le mie azioni.

Mi preparai con attenzione, scelsi con cura la biancheria nera di seta, il vestito, un abito colorato, piuttosto fuori stagione, visto che sembrava minacciare pioggia, con le spalline sottili, pieno di fiori fucsia, bianchi e neri, al quale abbinai un coprispalla nero e, ovviamente, le scarpe: col tacco altissimo, anche esse nere, di raso.

Mi truccai leggermente: non amavo il trucco pesante, non mi piacevano i colori troppo accesi sulla faccia, così optai per un po' di matita nera sugli occhi, un leggero velo di fard e un lucidalabbra trasparente.

Ero così nervosa che mi tremavano le mani, guardai la punta delle mie dita, si muovevano in modo incontrollabile, senza che lo volessi davvero, appoggiai le mani sul bordo del lavandino ed inspirai a pieni polmoni.

Mi guardai allo specchio e lasciai i capelli sciolti, perché sapevo che a lui piacevano così.

Innaffiai le piante, ascoltai un po' di musica.

Non avrei dovuto bere quel caffè, accidenti a me e alla mia mania di tenermi sempre occupata: non riuscivo proprio a starmene seduta sul divano, in attesa, ad aspettare tranquillamente lo scorrere delle ore. Come sempre, finivo per fare qualcosa di irrimediabilmente stupido ed incosciente per aumentare il mio stato d'ansia, come se non fosse già oltre i livelli di guardia.

Cavolo, avevo un'età e avrei dovuto comportarmi come una persona adulta, come qualcuno che era in grado di controllare le proprie emozioni, che non doveva aver paura di buttarsi nel vuoto, perché, con tutta l'esperienza che si acquisiva in trentacinque anni, sapevo di avere, da qualche parte, un paracadute di emergenza che mi avrebbe impedito di schiantarmi al suolo.

Ma non era così: ero pazza, ero folle, fosse stato anche un gioco, tutto, in quel momento, mi sembrava decisivo, importante.

Infinito.

Mi guardai allo specchio almeno cento volte.

E, ogni volta, mi trovavo un difetto in più: quei capelli, un disastro, lo sguardo stanco, gli occhi lucidi, il vestito fuori luogo.

Rimasi in vigile attesa per un tempo che mi parve infinito: mi sembrava che quel suo arrivo segnasse l'inizio della mia nuova vita, come se, non appena fosse arrivato, tutta la mia vita sarebbe per sempre cambiata.

TrentacinqueWo Geschichten leben. Entdecke jetzt