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Mi allontanai in punta di piedi, stizzita, senza nemmeno rendermi conto di quell'espressione di disgusto e disprezzo che mi si era involontariamente dipinta sul volto.

Perché allora farmi venire fino a lì, se non potevamo stare insieme nemmeno dieci minuti?

Uscii nell'ampio corridoio, ripercorrendo a ritroso i miei passi rispetto a quando ero arrivata e nervosamente mi avviai verso uno dei piccoli balconcini che davano sul cortile interno dell'albergo.

Aprii a fatica la porta a vetri e mossi alcuni passi all'aria aperta, inspirai a fondo ed estrassi dalla borsetta il mio pacchetto di sigarette.

Mi guardai intorno per farmi un'idea del panorama: il cortiletto interno era molto curato e c'era una statua bianchissima, una specie di riproduzione di una venere romana, che spiccava contro il verde dell'erba fresca.

Avevo bisogno di stare sola, in quel silenzio sapevo avrei trovato dentro la forza per non arrabbiarmi troppo, per essere serena, malgrado tutto, malgrado il resto del mondo stesse crollando, malgrado la mia vita stesse letteralmente cadendo a pezzi.

Mi accesi una sigaretta sovrappensiero, assaporando la prima boccata di nicotina mista all'aria frizzante dell'ormai tardissimo pomeriggio e cercando di scacciare i pensieri negativi, osservando un timido tramonto che illuminava il cielo di rosso fuoco, come se non esistesse inverno, come se non ci fosse altro che il sole, in quel momento.

Cercai di godermi quel silenzio, infranto, solo in lontananza, dal rumore del traffico della città che si preparava a vivere l'ultima notte del weekend: mi appoggiai alla ringhiera del balcone, stiracchiando le gambe e la schiena dolorante, mossi il collo per liberarmi dalla stanchezza, ma, malgrado tutto, mi rendevo che il male del mio corpo non era nulla, rispetto a quel disagio che provavo ad essere lì, con Giacomo che nemmeno mi aveva degnata di uno sguardo, se non per dirmi quanto fosse finita la nostra storia. Eravamo due mondi distanti, che non si potevano più incontrare e un po' spaventava l'idea di ritrovarsi a fare i conti con l'ennesimo fallimento sentimentale ormai più vicina ai quaranta che ai trenta. Fissando il giardino di fronte a me, mi sentii quasi male, forse era il fumo della sigaretta, o forse ero io, ad essere completamente sbagliata. Ma non era il dolore di doverlo lasciare, era il senso di smarrimento e la delusione che si prova sempre, indistintamente, ogni volta che finisce una storia.

-Fumare fa male – sentii dire alle mie spalle.

Mi voltai di scatto, sentendomi in colpa come se mi avessero sorpresa in flagranza di reato, in un gesto istintivo e sciocco, nascosi la sigaretta all'interno della mano, come facevo quando non volevo farmi scoprire, da ragazzina. Era un gesto che avevo appreso in imprinting da mio padre: reggeva sempre la sigaretta in quel modo, in un gesto piuttosto mascolino, che riuscivo ad imitare alla perfezione, come riuscivo, con un semplice gesto della mano, a scagliare lontano la sigaretta ormai spenta.

Era a pochi metri da me, intento ad accendersi a sua volta una sigaretta, si alzò il bavero della giacca e scosse la testa di riccioli castani, avvicinandosi alla balaustra a cui ero appoggiata.

-Non sono io quella che vuole fare la cantante – risposi con un'alzata di spalle.

Leonardo mi si affiancò con un'aria furbetta stampata sul viso, come se si stesse divertendo un mondo.

Il suo profumo era dolce, mi arrivò piano piano alle narici, qualcosa misto tra mandorla e spezie, che non riuscii bene ad identificare, perché era un buon profumo, anzi no, era un profumo in grado da farmi distogliere il pensiero da qualsiasi altra cosa avessi in mente di dire. Non avevo mai sentito un profumo simile, qualcosa che ti entrava dentro alle narici e ti drogava, perché non riuscivi a pensare ad altro, se non a quel profumo speciale, unico, che colorava tutta l'aria intorno.

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