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I successivi due giorni furono interminabili.

Mi sentii come se quelle quarantotto ore fossero durate mille anni.

Era strano sentire tutta quella mancanza, quel vuoto incredibile dentro al cuore che mi lasciava incapace di reagire, di pensare coerentemente e di accettare il fatto che fosse lontano. Prima che entrasse nella mia vita, le mie giornate erano piene, erano fin troppo corte, mi sembrava sempre di non aver spazio per me a sufficienza, di non avere il tempo materiale per fare tutto quello che dovevo.

E, in modo pazzesco, ora mi trovavo ad aver troppo spazio, troppo vuoto senza saperlo riempire, troppi silenzi.

Entrando nella mia vita, aveva colmato tutto.

E, ora, in sua assenza, non sapevo che farmene, di tutto quel vuoto che gridava e rumoreggiava petulante, ricordandomi quanto fossi sola, quanto fosse vuota la mia vita, costruita solo sulla carriera e su certezze che ora crollavano l'una dopo l'altra.

Intorno a me solo il silenzio e quella sua presenza profumata che aleggiava tra le pareti di casa, come un fantasma, come una presenza che mi mancava in un modo che le parole non bastavano per spiegare.

Ero persa senza di lui, mi sarebbe piaciuto che vedesse come mi ero ridotta, in sua assenza. Lontano dalla sua luce, impallidivo ed avvizzivo poco a poco come una pianta lasciata a seccare durante un'estate troppo secca.

Senza di lui era un deserto e quel letto era troppo grande, quelle lenzuola troppo fredde, in assenza del suo calore.

Avevo bisogno di lui, avevo bisogno che tornasse, in fretta, subito.

Avrei dato qualsiasi cosa perché tornasse tra le mie braccia, che tornasse da me, a casa nostra, una casa che era sempre stata mia, fino a quando non era arrivato a colmare gli spazi e il vuoto nel mio cuore. Mi mancava come l'aria, come il terreno sotto i piedi e crollavo a terra come un castello di carte su cui soffiava il primo alito di vento.

Era troppo, per me: ormai non ero più abituata a trovare la casa deserta e quel deserto intaccava il mio cuore, faceva piangere e sanguinare ogni piega della mia anima, al punto che mi sembrava di impazzire. Numeravo i passi e misuravo le distanze, contavo i secondi che ci separavano, facevo il conto dei respiri che ci dividevano, come un'anima in pena, come se fossi stata condannata all'inferno, o peggio, a vagare in un limbo fatto di non-sensazioni, ovattato, sterile.

Volevo il battito del suo cuore, volevo la sua voce, le sue braccia, la sua bocca.

Lo volevo tutto, con un'intensità che non aveva voce e che non tornava indietro, senza lacrime, senza paura, ma con un sentimento travolgente che bastava a colmare quei giorni vuoti, la sua assenza irraggiungibile.

Quante volte mi trovai seduta con la schiena contro al muro a guardare il cellulare in attesa di una chiamata, con la sua camicia addosso, quella camicia che sapeva di lui, con il suo sorriso nel cuore, in attesa, vigile, come se non dormissi da anni?

Senza di lui, mi trovavo nella assurda situazione di riuscire a malapena a respirare, di non riuscire nemmeno a sognare, a credere che ci sarebbe stato un domani e che, in quel domani, lui sarebbe tornato da me.

Le notti erano in bianco: mi giravo nel letto come un'anima in pena, allungavo la mano e lui non c'era. Il letto mi sembrava grande come l'oceano e, come nell'oceano, mi sentivo affogare.

La cosa strana era che, in fondo al cuore, avevo una gioia senza fine, perché sapevo che, prima o poi, sarebbe tornato da me, che era questione di ore, di poco tempo, anche se il tempo sembrava non passare mai.

Sapevo che sarebbe tornato, che sarebbe stato mio un'altra volta.

Ero felice di girarmi nel letto, di soffrire in quel modo dolce e tenero, godevo del mio stato d'animo inquieto, di sentire fortissima la sua mancanza, sussultavo al battito del mio cuore, perché mai pensavo che avrei potuto provare ancora sensazioni del genere e, ora, davvero, sapevo di essere viva, mi sentivo bene.

TrentacinqueWhere stories live. Discover now