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E io?

Potevo respirare e avevo capito come dovevano andare le cose.

Non ero fatta per farmi male, dovevo arrendermi, per quanto assurda, illogica, infantile e sconclusionata fosse la mia decisione, ora non potevo fare altro che lasciarmi andare: ero pronta a tutto.

Qualsiasi cosa fosse successa, ero pronta ad affrontare la mia vita, risvolti negativi o positivi che mi attendessero.

Non avevo più intenzione di scappare o nascondermi.

Nel buio della notte fredda, risuonava l'eco dei miei tacchi altissimi sul marciapiede deserto. Il mio impermeabile svolazzava nel vento fresco della notte, mi alzai il bavero, sistemai meglio la mia pashmina e continuai a camminare, immersa dal buio, inghiottita dal silenzio di una sera come tante, che, per me, non era poi come tutte le altre.

Ora ero libera, libera davvero di incamminarmi verso il domani, libera da tutti i pregiudizi, libera di fare quello che il mio cuore aveva desiderato, sempre, fin dal primo momento, sospesa sopra il tetto del mondo, in attesa che succedesse qualcosa, che cambiasse il tempo, aspettando che tornasse da me.

Non potevo negarmi di fronte alla realtà, perché, per quanto avessi cercato di sfuggire a quel ragazzo, ora sapevo che ero stata una pazza, non potevo dire no: il mio cuore, il mio corpo, i miei occhi, la mia bocca, le mie orecchie e ogni parte del mio essere non potevano liberarsi da quella magia.

Fosse durato anche solo cinque minuti, dovevo essere me stessa, visto che non ero riuscita a convincermi di poter stare bene senza di lui. Sapevo di essere pronta, lo sentivo in ogni parte del mio corpo, ne ero certa: ero pronta ad essere presa in giro, a soffrire per amore, ad accettare tutto quello che sarebbe arrivato. Forse le cose dovevano andare così: dovevo avere lui, dovevo averlo ad ogni costo, oppure sarei impazzita.

Se mi avesse rifiutata, non sapevo proprio che avrei fatto.

Ma qualcosa avrei fatto, almeno sarei stata in pace col mio cuore che aveva sanguinato fin troppo, negandosi di aver già lui come unico battito: forse stavo sbagliando tutto e ne avrei pagato le conseguenze, ma era un rischio che volevo affrontare, ero in grado di affrontare, perché avere trentacinque anni voleva anche dire riuscire ad accettare le proprie paure e i propri limiti e ora sapevo di averne anche io.

Non riuscivo a capire perché lo volessi tanto, perché non fossi in grado di dirgli no, che non potevo.
La verità era che ero sempre stata a due passi da lui e solo ora me ne rendevo conto.

Intorno a me, nemmeno una persona, nemmeno un cane randagio: quasi come se fossi l'ultimo essere della terra, come se non fosse rimasta anima viva, a parte me, dopo una bomba atomica o una pioggia acida, insomma, dopo un qualsiasi evento catastrofico per l'umanità.

Per me, l'unico evento catastrofico o, perché no, catartico era che avevo finalmente ammesso a me stessa di essere debole: avevo seguito il suggerimento di Leonardo e mi ero guardata dentro, cercando cosa volessi davvero, a cosa tenessi davvero.

Avevo dovuto sbattere forte la testa contro il muro, vendermi e svendermi, cercare altre labbra, altre braccia, cercare di convincere anche me stessa che per me ci fosse ancora tempo, ancora una via di fuga, ma alla fine c'ero arrivata.

Se non mi fossi buttata avrei perso qualcuno di speciale, qualcuno così speciale da non aver paragoni. E avevo ancora paura, forse ne avrei avuto per sempre, ma il vuoto sotto di me adesso era affrontabile, era qualcosa che, nel bene e nel male, dovevo essere in grado di gestire. Volevo lasciarmi andare, volevo aprire le mie braccia e prendere il mio tempo per guardarmi intorno, sapendo di non aver niente da nascondere.

TrentacinqueWhere stories live. Discover now