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Rientrammo a Roma il giorno successivo: la nostra fuga era già finita, anche se, in quei tre giorni, erano successe davvero tante cose, come se fossero durati tre anni interi, come se tante cose fossero cambiate, come se noi stessi non fossimo più quelli di prima.

Il mio cellulare aveva squillato tre volte, quella sera: osservai il display colorato del mio telefono e riconobbi i numeri di mia madre, mia sorella e quello di Francesco, che non avevo mai cancellato dalla rubrica, chissà perché: come una stupida avevo aspettato per anni una sua chiamata, per poi non rispondere, anzi, senza nemmeno sentire il telefono suonare.

Avevo volutamente evitato di rispondere a tutte e tre, né volli richiamarli, non volevo parlare con nessuno, non avevo bisogno di altre chiacchiere inutili.

Era un gioco che non potevo perdere, qualcosa che mi perseguitava, che non avrei voluto avere di nuovo, dal quale sfuggivo con tutte le mie forze, perché non lo rivolevo, non avrei mai permesso che tornasse di nuovo nella mia vita, ad ogni costo.

Arrivammo a casa nella tarda mattinata, Leonardo si mise a letto per schiacciare un pisolino, perché, nel primo pomeriggio, avrebbe avuto un'ospitata in un programma televisivo piuttosto famoso e aveva proprio bisogno di riposarsi un po'.

Io, invece, disfai le valigie e feci partire la lavatrice.

Guardai l'ora: quasi mezzogiorno, dovevo prepararmi ed andare in ufficio, dovevo rientrare al lavoro entro le due, almeno per riuscire a sbrigare alcune pratiche che avevo lasciato in sospeso quattro giorni prima.

Mi feci una veloce doccia, mi acconciai i capelli in uno strettissimo chignon, indossai un tailleur grigio chiaro e un paio di scarpe dello stesso colore. Mi truccai e lasciai vicino alla sveglia un bigliettino spiritoso per Leonardo, avvertendolo che avevo puntato il videoregistratore per registrare il programma a cui avrebbe partecipato e che ci saremmo rivisti a casa, più tardi, chiunque fosse tornato per primo.

Avevo una strana sensazione, tornando sul posto di lavoro, dopo tutto quello che era successo in quei pochi giorni, qualcosa come se fossi stata assente per una vita intera.

Mi guardai, come al solito, riflessa nello specchio dell'ascensore: ero carina, piuttosto abbronzata, col viso disteso e un lieve sorriso sulle labbra.

Dovevamo rifarlo, dovevamo ritagliarci un po' di spazio per noi, ogni tanto, da dedicarci e da godere senza dover pensare a niente, se non a noi, qualcosa che fosse solo nostro.

Avevo vissuto tutta la vita per godermi quei giorni di sole, accanto a lui, senza riuscire a reggere il suo sguardo, incapace, fragile, spaventata, inconsapevole, assetata.

Entrai in studio, salutando la ragazza alla reception, che mi ricambiò con un sorriso ed un cenno della testa.

Percorsi il corridoio che portava al mio ufficio, distribuendo sorrisi e saluti a tutti coloro che incontravo e, mentalmente, chiedendomi chi, tra di loro, avesse messo quel dannato giornale sulla mia scrivania. Scossi la testa, cercando di scacciare quel pensiero.

-Bentornata! - esclamò Veronica alzando la testa dalla pratica che stava leggendo tutta concentrata, si spinse gli occhiali sul naso e appoggiò il viso sulle mani aperte.

-Ciao Veronica, tutto bene?

-Tutto tranquillo, non ti preoccupare: malgrado la tua assenza, non ci siamo gettati nella disperazione, almeno, non troppo. Caffè? - mi propose.

-Se li vai a prendere, li beviamo nel mio ufficio - mi chinai verso di lei, abbassando la voce – non mi va l'idea di chiacchierare alla macchinetta del caffè in corridoio, dove chiunque può sentire.

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