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Molto probabilmente era circa l'inizio di aprile o giù di lì, solo quale mese fa, anche se a me sembrava passata una vita intera e tutto era chiarissimo: ricordavo ogni singolo gesto, ogni sguardo, ogni parola. Ricordavo che era iniziato con un aprile molto strano: sprazzi di sole che non scaldava intervallati da giorni e giorni di pioggia ininterrotta, con un freddo vento gelido che aveva cancellato tutti i ricordi dell'estate precedente.

Quell'aprile particolare era stato preceduto da un inverno lunghissimo, con tanta neve e tanto ghiaccio, uno dei più freddi che si ricordassero, da anni e che, con ogni probabilità, vedendo quell'aprile così anomalo non era ancora finito.
Aveva piovuto per settimane intere, forse addirittura per mesi.

Aveva piovuto così tanto che i fiumi erano straripati e le strade si erano allagate, rendendo Roma una Venezia post-atomica, animata da cittadini imprecanti e macchine di cui si riusciva a vedere solamente il tettuccio e la scia di acqua che sfuggiva come impazzita dalle ruote posteriori, ultimi ricordi del veicolo che erano.

L'acqua aveva invaso i sottopassaggi, le gallerie, gli scantinati: aveva fatto straripare i fiumi, i tombini e i canali di solito secchi e si era infilata sotto ai cavalcavia, provocando, qua e là, addirittura qualche morto. La gente aveva protestato con sdegno e vigore che nel ventunesimo secolo era vergognoso trovarsi del tutto impreparati di fronte a sfuriate meteorologiche del genere, ma, come per le buche dell'asfalto, i cornicioni pericolanti e gli infiniti cantieri sempre in corso, anche quello, dopo un po', era stato fagocitato dalla frenesia della città, dimenticato dalla quotidianità e, passato qualche giorno, nessuno ricordava più tutta l'acqua caduta dal cielo e riversatasi in strada. Era addirittura difficile ricordare chi fosse morto e perché e, perfino, per qualche motivo solo qualche giorno prima si era così arrabbiati e stremati e pronti a fare una rivolta.

Questa era la normalità a cui ci si era abituati, giorni in cui una vita valeva meno di nulla e dove tutto scorreva troppo in fretta, quasi davvero come acqua straripata da un fiume.
L'acqua era quindi scivolata via, evaporata, scomparsa, ma l'inverno non era certo passato, anzi, apparentemente il peggio doveva ancora arrivare.

Il cielo era grigio da talmente tanti giorni che ormai si erano persi tutti i ricordi di sole, di estate, di caldo. Il vento gelido sibilava attraverso le imposte scolorite degli antichi palazzi del centro. Gli alberi tendevano i loro rami secchi e morti verso il cielo, quasi ad invocare un po' di clemenza. Per strada non c'era quasi nessuno, solo sporadiche automobili scure, guidate da ombre nere frettolose, scostanti e diffidenti.

Quando ormai mi stavo abituando all'idea che non avrebbe fatto caldo mai più, che mai più avrei visto la luce e il cielo blu, era arrivata la prima giornata di sole.
Quasi all'improvviso, dopo settimane di freddo polare, in cui avevo ritrovato il gusto di infilarmi i guanti (indumento che detestavo, considerando che, fumando, diventavano sempre qualcosa "di troppo", non appena cercavo di accendermi una sigaretta), il cappello di lana che mi copriva le orecchie e la sciarpa pesante che nascondeva quasi del tutto il mio viso, tranne il naso rosso come un peperone e gli occhi scuri, mobilissimi.

Quel giorno, quella domenica particolare di inizio aprile, mi ritrovai davanti alla finestra del mio appartamento, ad osservare la strada sottostante, cercando di intuire le storie delle rarissime persone che vedevo camminare a passo svelto lungo i marciapiedi: il poliziotto in divisa, che passeggiava circospetto, guardando attentamente ogni persona che incontrava, registrando ogni minimo dettaglio; la coppietta innamorata che si teneva per mano, lei aveva l'aria un po' nervosa, come se avesse paura di perderlo e perciò lo stringeva forte e cercava il suo sguardo; madre e figlio sui quattro anni: il bambino saltellava accanto a lei cantando e parlando contemporaneamente, raccontava qualcosa che la madre non tentava nemmeno di capire, preoccupata com'era a controllare i messaggi sul proprio cellulare.

La mia attenta osservazione del panorama venne interrotta da una chiamata.

L'uomo con cui uscivo in quel periodo, che di mestiere si professava regista , mi chiedeva se fossi interessata a raggiungerlo sul set del suo ultimo video.

Era elettrizzato all'idea e, da settimane, più o meno da quando era stato contattato per questo nuovo lavoro, praticamente non parlava d'altro.

Mi aveva raccontato che il protagonista era la star del momento: un ragazzetto che aveva appena vinto un talent show di enorme successo. Mi disse che questo fenomeno aveva riscosso tanto clamore e aveva raggiunto una fama tale da fare impallidire le star musicali internazionali, tanto che le sue canzoni scalavano le vette delle classifiche ed ogni sua apparizione in televisione veniva osannata e lodata.

Apparentemente, da quello che asseriva, il ragazzo aveva addirittura difficoltà a camminare per strada o a fare le cose che la gente normale fa quotidianamente senza problemi.

-Devi sentirlo Laura, canta divinamente! – esclamò con un entusiasmo che mi lasciò interdetta. Solitamente Giacomo (o, come si faceva chiamare nell'ambiente, Jack) non era tipo da facili entusiasmi, tanto meno nei confronti dell'odiatissimo mondo della televisione, che aborriva più di ogni altra cosa, considerandola un tipico esempio del decadimento della nostra società moderna. Fingeva di snobbare tutto ciò che era commerciale, ma, da quando lo conoscevo, non aveva fatto altro che lavorare per la televisione e, quello, era il lavoro più serio che avesse ottenuto. Prima, si era occupato di riprese per emittenti musicali più o meno famose: davvero mi chiedevo come avesse fatto ad avere un incarico così prestigioso, perché, malgrado tutto, sapevo che per lui era davvero importante.

Malgrado avesse sempre sputato sul mondo della televisione, lo sentii letteralmente cinguettare estasiato, mentre tesseva entusiasta lodi su lodi su questa fantomatica star, quasi come un'adolescente alla prima cotta.

-Forse non dovrei fartelo notare, ma mi suona strano sentirti così appassionato per una persona che esce da un reality show – passai il cellulare da una mano all'altra, mentre mi versavo una tazza di tè caldo, diedi un'occhiata fuori dalla finestra, osservando per qualche secondo un anziano che portava a passeggio il proprio cane – teoricamente non se tu quello che odia questo genere di spettacoli?

-Allora, innanzitutto non è un reality, ma un talent show, dove è stato premiato il talento e, se vuole il cielo, questa volta proprio il talento hanno premiato. E poi tu, finché non lo conoscerai, non puoi esprimere un giudizio, non l'hai ancora né visto né sentito: la sua voce incanta ed ha un carisma tale che sembra far ruotare tutto intorno a lui – parlava troppo in fretta e per qualche secondo mi chiesi se, per l'ennesima volta, non avesse bevuto troppo – insomma, ti offro una vera opportunità: puoi venire a vederlo oppure restartene a casa, passando il tuo unico giorno di riposo senza muovere un dito. Senza contare, poi – aggiunse quasi come se questo pensiero gli fosse saltato in mente all'improvviso – che potremmo stare un po' insieme, visto che ultimamente non ci si vede mai.

Era vero.

Lavoravo troppo.

Lo studio legale non si era preso solo il mio dito, ma tutto il mio braccio e anche quel poco che restava della mia anima.

La cosa più assurda era che più lavoravo, più aumentava la mole di lavoro: le pile di pratiche crescevano a dismisura sulla mia scrivania (che non ricordavo più se fosse mogano o nera), le telefonate iniziavano ad arrivare fin dalle otto e mezza e il telefono continuava a squillare fino a quando, esausta, non chiedevo che non mi fosse più passata alcuna comunicazione, di alcun tipo, personale o lavorativa.

Negli ultimi quattro mesi non avevo fatto un solo giorno di ferie, lavorando fino a notte fonda. Ormai per me era diventata un'abitudine uscire dall'ufficio e prendere un taxi per tornare a casa, perché troppo tardi per avventurarmi per le vie del centro animate solo da barboni, tossici ed ubriachi.

La domenica era l'unico giorno in cui riuscivo a ritagliarmi un po' di spazio per prendermi cura delle mie piante e della mia casa, per non dire di me in prima persona.

-Dai, - rincarò Giacomo – esci all'aria aperta, vedi un po' di gente, insomma... vivi! – esclamò entusiasta, come se da quello dipendesse davvero l'esito della sua giornata - E poi è un'esperienza nuova, fuori dal tuo mondo e un po' più vicina al mio!

E siccome non mi piaceva farmi pregare, dissi di sì, senza sapere quanto il mondo che stavo per incontrare fosse diverso da quello di Giacomo.

Chiusi la telefonata prendendo nota della location della registrazione e dell'orario in cui avrei potuto accedervi.

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