42 . Irriducibile

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Washington DC, USA

Appartamento di Steve Rogers.

La luce dalla finestra illuminava la stanza a pois. La persiana abbassata quasi per intero, permetteva un clima non troppo brusco per gli occhi, consolante per i cattivi presentimenti.

Il caffè ribolliva nella macchinetta da un minuto, il profumo aveva già invaso la casa. Steve arrivò in ritardo, quando il fornello sfrigolava arancione cercando di divorare la bava nera che traboccava e macchiava il fondo del piano cottura.
Afferrò la maniglia con una presina e pulì il macello. Due tazzine un po' sbeccate. Titubò sulla terza. Le posò sul piano e rimase in attesa.
Se ne stette in piedi, la gamba ballerina e nervosa, un occhio ai pensieri e uno al divano occupato. Era rimasto seduto in mezzo al salotto tutto il tempo, a fissare un punto vuoto, giocando col rollo delle garze con le unghie sporche, raccogliendo gli indizi sparsi e cercando una soluzione che ne cucisse il legame. Ma non aveva trovato nulla. Era tutto sbagliato. Tutto insensatamente illogico.

Scattò automaticamente al bussare delle nocche. Quando aprì la porta, gli occhi vitrei della Russa lo guardarono con aria contrita. Sentì mancare il respiro perché era arrivato il momento più difficile: concretizzare. Finché fosse rimasto da solo con la matassa inquieta di domande, sarebbe stato al sicuro da ciò che non avrebbe voluto sapere. Ovviamente, la sua morale non gliel'aveva permesso.

-Ah, sei qui. - constatò rigido.

-Mi dispiasce di averci messo tanto, ho fatto più in fretta che potevo. Ecco i vestiti che mi avevi chiesto. Adesso posso sapere cos'è successo?

Natasha lasciò il borsone sul petto di Steve il quale lo afferrò malamente, impreparato. Appuntò i pugni sulle anche. Pretendeva una risposta immediata. Quella telefonata quasi telegrafica, completamente vaga, la voce seriosa e rotta, incerta, l'avevano fatta allarmare. E ora quell'espressione indecisa, alla ricerca di parole che non arrivavano, le davano la conferma per sua preoccupazione.
Steve si scostò per cederle il passo, muto, perché gli occhi spiegassero meglio. Lanciò un cenno breve al divano, dove un debole essere inumano riposava, stretto in bende spennellate e puntellate di rosso. Il braccio destro abbandonato verso il pavimento. Il petto s'alzava e si schiacciava con fatica.

Natasha si avvicinò cautamente. Si accovacciò, senza sapere dove mettere le mani. Tastò la fronte sudata, la pelle di pece, tiepida, le vene pulsanti. Riconobbe Astrid solo dai lineamenti. Seppure contorti nell'impronta del dolore, erano ancora i suoi.

-Da quando è così?

-Poco piu di tre ore. L'ho trovata davanti alla porta stamattina. Vaneggiava. Ma è migliorata. Credo... Sembra non stia soffrendo come prima.

-Nick sa qualcosa?

Steve scrollò il capo. Incrociò le braccia. Sospirò. Poi tornò statico.

-Nessuno sa niente. Solo tu. Ho chiamato Stark, ma come al solito non risponde.

Natasha corrugò la fronte. Fece un sospiro troppo profondo e Steve se ne accorse.

-Tu sai.

-Io non...

-Natasha, non mentire. Non a me. Non in questa situazione. Per favore.

La rossa abbassò lo sguardo un istante per staccarsi da quelli disperatamente richiestivi per cui cominciò a sentirsi in colpa. Non era giusto, a quel punto, fingere ancora.

-Nick mi ha chiamata, verso le sei di stamattina. - confessò, mentre tornava in piedi, le mani sui pantaloni come per pulirsi dalla colpa. - Hanno trovato dei corpi. Nove agenti dello SHIELD. Morti.

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