4 . Andare avanti

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Ormai aveva perso il sonno da tempo. Prima di quella notte, passava le ore buie a guardare le luci della città cangiare fino a spegnersi, finchè il sole sorgeva impavido e sovrastava i grattacieli. Non le rimaneva che il whiskey più misero, comprato tristemente in uno di quei negozi con i neon lampeggianti, che nemmeno la faceva ubriacare. "Metabolismo cellulare avanzato" aveva letto una volta su una rivista che riguardava un certo super eroe. Era qualcosa che avrebbe dovuto renderla invincibile e temeraria e tanti altri aggettivi che le avrebbero fatto onore in parecchie circostanze diverse dal loop in cui si era ostinatamente rinchiusa.

Talvolta se ne sdraiata davanti alla finestra, a stappare l'ultima spesa in alcool che aveva fatto e a scolarsela tutta come un leggero thè speziato che le dava qualche minuto di lucidità in meno. Si godeva quel minimo di assuefazione, per poi rinsavire un po', percepire più pungente il senso di colpa e far fuori un'altra bottiglia.
Il modo in cui lo aveva scoperto era il motivo per cui non avrebbe mai smesso.

Quella mattina si svegliò strana. O meglio: fu strano svegliarsi. Aveva la faccia spiaccicata sul cuscino e la bavetta alla bocca che bagnava la federa. La prima volta che dormiva dopo mesi, senza contare il lungo sonnellino col sedativo. Ripensandoci meglio, dovevano avergliene iniettato davvero tanto per farla dormire per più di un'ora.

Guardò la sveglia sul comodino. Sorrise amareggiata. Aveva appuntamento con Coulson entro un'ora. L'avrebbe portata alla Torre Avengers e l'avrebbero fatta diventare una Vendicatrice.
Si fece una doccia dimenticandosi del braccialetto elettonico che le avevano installato alla caviglia. Le avevano permesso di dormire a casa per l'ultima notte e di prendere tutte le sue cose in modo da farla sentire a suo agio.
Ancora tutta quella gentilezza le creava uno sconquasso interno confuso, ma se lo fece andare bene.

Speriamo almeno che abbiano del buon Bourbon.

Sfilò un borsone dall'armadio, lo spolverò e cominciò a ficcarci dentro qualche vestito. Recuperò la bottiglia vuota che era rotolata verso la porta, diede una pulita veloce alla stanza cercando di non piangere, di non pensare al funerale, di non pensare alla drammatica assenza che galleggiava in quella casa e che le ricordava cos'aveva perso. In ogni angolo di ogni stanza c'era il segno del suo passaggio, una costante insopportabile. Un peluche, la sua sedia preferita, la chitarra, la parete su cui giocavano a freccette, le tende che Astrid aveva bruciato il primo gioco che erano state messe, le fotografie sparse per casa, i suoi libri di studio, il suo terribile profumo al patchouli impregnato nei cassetti, i suoi amati trucchi sparsi ancora sul lavandino del bagno, le sue pantofole con le orecchie da coniglio, un grosso orecchino argentato caduto sul pavimento, la tazza ancora sporca di caffè che lavava solo con l'acqua ogni mattina...

Doveva lasciare quella casa.

In perfetta puntualità il cellulare che le avevano affidato al posto del suo vibrò sul tavolo della cucina. Astrid fissò il "numero riservato" per qualche squillo. Sapeva bene chi fosse e che doveva rispondere per forza, altrimenti chissà se avrebbero sfondato la porta e l'avrebbero trascinata esanime come l'ultima volta? Magari non aveva molta voglia di riprovare l'esperienza. Pigiò il tasto verde.

-Pronto?

-Buongiorno, signorina Sullivan!

-Buongiorno a lei, agente Coulson...

-Spero sia pronta.

-Aspettavo lei.

-Mi piace il suo spirito! Sono davanti al suo appartamento.

Astrid si alzò e aprì la porta. L'agente Coulson aveva ancora il braccio appeso all'orecchio e il cellulare in mano.

-Perché non ha bussato? – Domandò lei con tono irritato e confuso.

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