30 . Boccata d'aria

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Un dente di leone spuntò dal suo palmo paffuto. Il sudore le bagnava i capelli, la tunica era strappata, i piedi nudi sporchi e feriti. Un paio di iridi glaciali si erano soffermate sull'illusione per carpirne il trucco.

Dlya tebya, soldat

Non conosceva il suo nome. Le era proibito conoscerlo, come lo era parlargli. Aveva deciso di assegnargli l'epiteto con cui il Comandante e il Dottore lo chiamavano mentre comunicavano in una lingua complessa di cui aveva imparato poche parole. "Per te, soldato" gli aveva detto porgendogli il fiore. Soldat non era mai stanco quanto lei, nonostante uscisse spesso dal complesso per le missioni, mentre lei rimaneva chiusa nella cella a immaginarsi gli steli d'erba bucare il ghiaccio della Siberia e a giocare con mattoncini di legno che cambiavano colore sotto le dita.

Un bagliore confuso attraversò le pupille di Soldat e poi tornarono vuote. Spinse il metallo della porta e la serrò. Ringhia di furore li divisero, spietate e perforanti come proiettili. Penetravano le ossa, tra uno spasmo disperato e uno di sottomissione. Un sguardo algido e impenetrabile la fissava come una statua senz'anima in fondo alla stanza, attenta e pronta ad agire.

“Non muoverti” ripeteva il dottore.

Un bracciale ai polsi, uno al collo. La punta di ferro si insediava nella carne, il liquido scompariva e bruciava nelle braccia, risaliva al petto, intorpidiva le gambe, il cervello. E il corridoio si allungava, deformato dal tempo e dal lordume strisciante sul pavimento.

Due minuti. Seconda dose”.

Lo stantuffo si abbassò di nuovo e i muscoli tornarono a contorcersi nel dolore. La sua lingua era troppo gonfia e smise di supplicare pietà.

Tre minuti. Un'altra”.

La siringa volò lontana, il vetro si frantumò per terra. Il liquido azzurro si sparse sulle mattonelle.

Devi collaborare

Quando la tortura finì, erano solo lei, i tremori e un'ombra impassibile. La luce del sole, affettata dalle inferriate, rimbalzava sull'acciaio lucido dell'arto di assassino senz'anima. La mano di carne frugò nella pettorina, dietro la fascia delle munizioni e ne sfilò un fiore dalla corolla dorata e sgualcita.

*

Spalancò gli occhi. Il cuore le tremava in uno strano senso di insoddisfazione, come per il mancato sfogo dell'impatto quando ci si sveglia di soprassalto dopo una caduta libera.

Controllò le cifre dell'orologio digitale sulla parete che si appropriavano di un lembo di buio, illuminandolo tenuemente: entro meno di un minuto JARVIS l'avrebbe colta ad abbuffare il cuscino per tornare a dormire.

Si sistemò quindi con calma, tentando di cancellare ogni flash che le annebbiava il cervello, anche dopo che la porta si era aperta per farla uscire.

Era un po' che non sognava. Si sentiva meglio, in qualche modo. Felice? Era una parola grossa. Più leggera e libera, quello sì. Un illusorio varco luminoso tra le nubi del tormento. Troppo bello, per lei, per durare. Il momento giusto per far crollare di nuovo tutto nel baratro.

Quella notte era toccato, dunque, all'incubo che meno riusciva a collocare temporalmente, sebbene l'accompagnasse da più tempo degli altri. Non erano scene che ricordasse aver vissuto o visto, a parte la figura di quel dannato Dio verdognolo che si divertiva a far parlare le voci del subconscio. Per un periodo aveva smesso di ricorrere, lasciando spazio agli incubi nuovi, poi era tornato, come per ribadire la presenza angosciosa di un significato vitale, sepolto tra le immagini lugubri, che lei non era mai riuscita a cogliere e nemmeno si era mai impegnata ad approfondire.

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