41 . Rosso

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Washington DC, USA

Si svegliò di soprassalto.

L'orologio spiccava sul display del cruscotto. Erano le 11 passate. Sotto ad esso lampeggiava la spia rossa del carburante. La luce del sole batteva quasi perpendicolare sul parabrezza e le rimbalzava dritta negli occhi. Si maledisse per aver perso la lotta contro il cervello. Sarebbe dovuta rimanere vigile, se non proprio lucida, invece si era lasciata trascinare pigramente dalla spossatezza.

Fece uno scatto in avanti troppo repentino e una fitta dilaniante la contorse da ogni lato, obbligandola a tornare nella posizione iniziale. Sollevò la mano gocciolante dal ventre. Arrotolò la maglia incollata alla pelle umida, alle ferite che la traforavano come una grattugia. Non si erano rimarginate, anzi, continuavano ad eruttare, rosse e vive. Come dotata, sarebbe dovuta essere guarita e ed essere pimpante da ore. Come comune mortale, sarebbe dovuta morire dissanguata prima di riuscire a fiondarsi goffamente in macchina. In qualche modo, per qualche ragione che le sfuggiva, la sua vita oscillava in un limbo sospeso tra i due stati, come uno zombie.

Scivolò fuori dall'auto, su una strada sterrata e deserta. Osservò la scia della sua sosta sugli interni macchiati di sangue. Non poteva lasciare l'auto di Tony incustodita e ridotta in quello stato, qualcuno si sarebbe insospettito. Fece la prima cosa che le venne in mente di fare: le diede fuoco.

La strada ondeggiava e si sdoppiava. I piedi di piombo e la testa troppo leggera non aiutavano. All'esplosione allungò il passo e si nascose nell'erba alta di un fosso. Camminò per chilomentri, finché le sue gambe non cedettero. Nascose la pancia, mentre la gente la fissava esterrefatta sul marciapiede. Attraversò un bar, rubò una felpa abbandonata su una sedia, vomitò del sangue in un cassonetto e continuò zoppicando, la vista annebbiata e deglutendo il dolore più forte che avesse mai provato in vita sua.

Controllò la via, poggiò la nuca contro la parete dell'appartamento per riprendere energie e fiato. Approfittò dell'uscita di una signora anziana che portava due fondi di bottiglia sul naso e non notò la sua mano rossa e appiccicosa, tenendole la porta. Sospirò sofferente a ciò che l'attendeva all'uscio: scale. Tante. Troppe. Rassegnata, fece appello a tutta la forza di volontà che le rimaneva per un ultimo sacrificio. Si barcamenò strusciando la spalla buona contro il muro.

Controllò i nominativi sotto i campanelli di ogni porta. Con la vista annebbiata per cui precedentemente aveva mancato un paio di gradini, dovette avvicinarsi ad uno ad uno perché non riusciva a metterli a fuoco. I nomi e i cognomi parevano tutti uguali: delle strisce nere e deformi, alcune più corte, altre più lunghe. Premette quello che sperò fosse giusto con il dorso della mano per non lasciare impronte visibili.

Doveva essere in casa. Doveva, per forza. O sarebbe rimasta accasciata alla porta in attesa, finché riusciva ancora a respirare. Suonò di nuovo, insistentemente. Forse aveva sbagliato a presentarsi lì, ma non sapeva chi altri avrebbe potuto accoglierla. Sbattè la nuca contro il muro mentre la gamba le tremava come non mai, il braccio molleggiava senza più sensibilità ed ogni respiro era un'ennesima pugnalata, per non parlare della tosse porpora che aveva cominciato ad ostruirle i polmoni.

Sentì un sollievo fisico allo scatto della serratura. Fece per sollevarsi dal sostegno confortante del muro, ma la gamba le giocò un brutto scherzo e la fece crollare da un lato. Un paio di braccia forti furono pronte a sorreggerla prima che incontrasse il suolo.

Steve pensò in fretta, la prese in braccio, chiuse la porta con un calcio e se la portò dentro. L'adagiò sul divano. La arrotolò con una coperta pesante perchè era fredda, troppo fredda, in modo innaturale. Aveva perso troppo sangue.

-Cos'è successo? Chi ti ha ridotto così?

-Non sono stata io... - singhiozzò lei, increspando il volto in un pianto.

-Che cosa? Non sei stata tu a fare cosa?

Steve le stringeva la mano che non riusciva richiudersi attorno alla sua. Con l'altra le carezzava le reggeva il capo, le dita tra i capelli incollati dal sangue secco.

Altre due parole risalirono sulla punta della sua lingua, tra tutte quelle che le si ingarbugliavano in gola. Le sole che non avevano smesso di rimbombare da quando le aveva sentite uscire dalle labbra dell'uomo che la minacciava con la pistola, mentre un fiotto denso e scuro le soffocava e il corno dorato gli recideva il petto come un pezzo di carta.

Percepiva ancora il freddo metallo sulla tempia, le lacrime sciogliere le croste sul viso, i suoni delle sillabe come un'infinita cantilena.

I tempi passati e dimenticati improvvisamente tornavano vividi come se la cortina spessa che li oscurava si stesse lentamente degradando.
Si rivide di nuovo, seduta su una sedia scomoda, in quel laboratorio sconquassato che adesso ricordava dettagliatamente. Il riflesso del suo volto su un vetro lontano. Capelli lunghi e un viso puerile. Le guance rosee di una bambina senza nome. La voce calma di un uomo dalla maschera buona e dalla chioma bianchissima, echeggiò tra le pareti, inclinata da un forte accento tedesco.

-Niente flebo, oggi. Sei stata brava. Fra poco sarà pronto. Non ci sarà più nessuno come te in circolazione. Sarai l'unica. Non sei contenta?

Aveva annuito, la bambina, come se lo fosse davvero. In realtà, la sua attenzione si era posata sul broncio freddo dell'uomo alla porta. Rigido, muto. Un soldato obbediente, in attesa di ordini. I ciuffi scuri, lunghi e unti con cui gli occhi grigi e appuntiti giocavano a nascondino, incupivano maggiormente il volto ombroso. Le braccia possenti, ritte lungo busto, la sinistra coperta dal tessuto dell'imbracatura, l'altra lucente e timbrata da una stella rossa sulla spalla.

-Che c'è? Lui non ti piace? Non temere. Lavoriamo tutti per la stessa causa. Salutalo. Come si dice?

Steve infilò un cuscino sotto la testa bagnata. Non sapeva più cosa fare. Prese il telefono per chiamare qualcuno, ma prima di comporre qualsiasi numero, Astrid tossì di nuovo, rigurgitando un grosso grumo che andò a macchiare la coperta e la maglia dell'uomo. Lamentò il dolore che aveva preso pieno possesso del suo corpo e della sua ragione. I bulbi oculari si girarono mostrando solo la parte bianca.

-No, no, no!

Steve le diete dei piccoli schiaffi sulle guance per farla tornare. Mentre pensava che la cosa peggiore sarebbe stata perderla sul suo divano di casa senza sapere perché, senza conoscere l'artefice di quell'orrore, senza essere riuscito ad intervenire, non in uno scontro, non durante una missione, lontana da tutti, la pelle di Astrid si spellò con una patina dorata e luminescente, scoprendo uno strato spesso di carbone. Partì dalle guance, proseguì verso la fronte e il mento, poi raggiunse il collo e infine le braccia.

Con un filo di voce strozzato nell'ultimo faticoso respiro, prima di permettersi di richiudere gli occhi e abbandonarsi allo strazio, Astrid emise un rantolo. Il buio la prese con sé, mentre un teschio con sei braccia da polpo pulsava lentamente come il suo cuore.

-Heil Hydra.

-Heil Hydra

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