XCVI. - Non qui

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Il mio ingresso in campo poteva sicuramente definirsi trionfale. Tutto il pubblico del Nido era concentrato su di me. Gli spalti non erano pieni, ma sicuramente c'era più pubblico di quanto ne potessi immaginare. 

Le emozioni che provai entrando in campo, sentendo incitare a gran voce il mio nome, non erano sconosciute ma allo stesso tempo erano del tutto nuove. 

Ringraziai il percorso che mi aveva portato a quel giorno, perché la Beatrice che varcava per la prima volta la soglia dei campi A non sarebbe riuscita a sostenere la metà delle pressioni che adesso gravavano su di me per il primo turno di tabellone principale. 

Si potevano udire tutti gli applausi, tutti gli urli. Bastava uno sguardo distratto in alto e mille teste in cerca di un cenno facevano la loro comparsa. Rimanevo con il volto basso e lo sguardo a terra, almeno fino a quando non lasciavo la panchina alla fine dei cambi di campo. 

Riprendevo a guardare davanti a me quando nel mio raggio d'azione rimaneva solo la mia avversaria. Era una qualificata del C che non avevo mai visto e che sembrava aver centrato il torneo dell'anno, con sette turni superati.

La partita fu facile, ma era come se dovessi sempre rimanere all'erta. Quella ragazza aveva un grande seguito – era vista come il riscatto da parte dei gruppi inferiori nei confronti dell'A – ma non ebbe vita facile. 

"E anche questa brutta figura l'hai scampata" fu l'unico pensiero che riuscii ad elaborare.

Da quando Sebastiano se n'era andato non riuscivo ad affrontare il campo da tennis con la stessa grinta. Dovevo concentrarmi il doppio per svolgere qualsiasi compito, fuori e dentro il campo. 

Durante gli allenamenti la voce di Cresci non era diventata altro che un petulante sfondo alle immagini incolore che si susseguivano nella mia mente. 

Ero triste, e questo mi faceva sentire in colpa perché non riuscivo a concentrarmi come volevo sul torneo. Mi arrabbiavo, e quella rabbia mi faceva fare cose improbabili in campo che mi precipitavano in uno stato di tristezza ancora peggiore. 

Il coach mi aveva cacciato dal campo il giorno prima, invitandomi a "schiarire le idee". Non ero più tornata in campo e mi ero presentata agli allenamenti direttamente il giorno dopo. Non aveva detto nulla. Immaginai che, per una volta, avesse capito come mi sentivo.

Mentre correvo per riscaldarmi prima di una partita, frotte di persone mi camminavano incontro. Tutti sembravano allegri, spensierati, o concentrati per il proprio match. 

Ognuno continuava a fare quello che voleva. Perché erano tutti così indifferenti? Perché nessuno diceva nulla? Perché tutti continuavano a vivere la loro vita, come se Sebastiano non se ne fosse mai andato, o peggio, come se non fosse mai esistito?

La risposta vincente si fermò a qualche centimetro dalla riga di fondo. Mi avvicinai a rete per salutare la ragazza che avevo giustiziato. Qualche frase di circostanza, poi la mano stretta al giudice di sedia, il saluto verso il pubblico. Ormai un gesto automatico.

Ora che ero una testa di serie non potevo prendere il mio borsone e andarmene. La giornalista del canale della Fenice entrò rapidamente in campo e mi fece domande che dimenticai subito dopo. Poi fu il turno di canale 7 e infine degli spalti, per le foto e firmare qualche autografo. 

La tiritera frenetica del Master Finale si ripeteva sempre nello stesso modo, inesorabile. Jade mi scortò dall'uscita dal campo fino allo spogliatoio per prepararmi alla conferenza stampa post-partita, alle interviste e agli eventi in programma.

Mi preparava alle domande e mi spiegava tutto ciò che c'era da sapere per ogni evento. Non mi lasciava sola una secondo. In quei momenti, giorno per giorno, mi rendevo conto di quando fosse importante la sua presenza, a volte solo uno sguardo o una parola di incoraggiamento.

La Fenice #1 [La Fenice Series]Where stories live. Discover now