LXIII. - Sotto la maschera

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Erano passati quasi sei mesi dal mio arrivo nel gruppo A. Un tempo infinito, che mi aveva consumato, mi aveva cambiato, mi aveva fatto crescere.

Abbassai leggermente le gambe, strisciando le suole sull'amato cemento blu. A pochi centimetri, la riga di fondo disegnava precisamente i confini del campo. Impugnai la racchetta con entrambe le mani, pronta per ricevere. Analizzai il lento movimento del servizio di John, la sua spinta con le gambe, la sua ricerca della palla, ormai alta e già nella sua parabola discendente.

Un lampo.

Una pallina, a quella velocità di servizio, ci mette meno di mezzo secondo ad arrivare dall'altra parte del campo. Meno di un colpo di tosse, meno di un battito d'ali.

Mi spostai a sinistra con un balzo, posizionai il piede esterno indietro, la mano sinistra indicò rapidamente la palla in arrivo. Un suono sordo. Accadde tutto così velocemente.

Una sensazione di liberazione. Il calore del campo coperto, il sudore.

Il raggio di sole appena sorto che entra dalle vetrate, inondando di luce un frammento di campo. L'odore delle palline nuove. Il cuore che esplode nel petto.

E poi un suono sordo. Una sensazione di liberazione.

I muscoli che si irrigidiscono, che si rilassano improvvisamente.

Accadde tutto così in fretta.

Le cose belle accadono sempre troppo in fretta.

La saetta gialla volò dall'altra parte, carica della mia forza. Non fanno che questo, le palline. Si caricano della forza d'altri. Delle loro frustrazioni, dei loro pensieri e dubbi. È un mistero che non pesino tonnellate alla fine di una partita.

John si allungò sul suo rovescio per tentare di raggiungere la palla, io alzai le braccia al cielo vittoriosa.

- Se riesco perfino io a farti un punto in risposta, John, è davvero arrivato il momento di appendere la racchetta al chiodo! - gli urlai contro. Il vice-allenatore, il fisico mastodontico e la carnagione scurissima, scoppiò in una risata.

- Non provocarmi, piccolina! -

Era arrivato il giorno tanto aspettato. La partenza per la Coppa Squadre. Il giorno prima, quasi come un rituale, Cresci ci aveva portato tutti nel corridoio sud della Casa, al secondo piano. Lì, esposti in cornici bronzee sottilissime, le foto di tutte le squadre che avevano partecipato alla Coppa Squadre con i colori della Fenice.

Una sfilza di tute nere sempre più preziose ed esclusive, recanti la targa Tennis Club Italia, improvvisamente trasformatasi nel cerchio luminoso della Fenice nelle ultime otto rappresentazioni.

L'aria grave del corridoio silenzioso, il volto di Cresci contratto e concentrato mentre pronunciava le sue parole di incoraggiamento, i volti sorridenti di leggende del tennis quando ancora vivevano ignare del loro futuro luminoso, quando ancora ragazzini lottavano e speravano di guadagnarsi un posto nell'olimpo del tennis.

Tutto questo mi caricò di felicità, ma anche di tensione e paura.

Era la mia occasione, la mia grande occasione.

- Qualsiasi cosa abbia detto, non dargli ascolto - John si sedette accanto a me, lasciando la racchetta e passando l'asciugamano sul volto madido di sudore. Mi voltai senza capire.

- Cresci. So che stai pensando al discorso, e in generale alla Coppa Squadre -

- Secondo me hai qualche potere sovrannaturale - commentai. Lui rise.

- La tua faccia da funerale non lascia molte interpretazioni. Qualsiasi cosa sia, entra in campo e fai la tua partita. Dimentica le telecamere, la gente, le parole di chi è fuori. Pensa solo all'avversario, al campo, alla palla. E a te.

La Fenice #1 [La Fenice Series]Where stories live. Discover now