LXXI. - Così lontani

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Decisi di tenermi occupata andando a supportare Hugo, che dopo la schiacciante vittoria di Noemi era rimasto l'ultimo dei ragazzi della Fenice a dover entrare in campo. Anche lui, come me, avrebbe affrontato un incontro decisivo per la classifica. Alle sette, con il sole ormai tramontato e un cielo limpido, cominciarono le semifinali maschili dell'under 16. 

Arrivata al campo mi accolsero due panchine identiche, a pochi metri di distanza, destinate alle tifoserie avversarie. La partita con David Poli non sarebbe stata facile, ma neanche impossibile. 

Non avevano un gioco molto diverso: erano entrambi cultori del pallonetto, ma sapevano anche tirare sugli angoli per aprirsi il campo. La differenza era tutta in quei trenta centimetri d'altezza.

L'anno prima, ai Becker Championships, nessuno aveva notato questa differenza, perché i due erano ancora identici. Adesso il ciuffo biondo di David svettava da un colpo alto e snello, mentre il nostro compagno di squadra non era cresciuto, né si irrobustito, nell'ultimo anno.

Erano stati inutili i chili di pettorali e gambe a cui l'aveva sottoposto Gianluca. Hugo era migliorato in forza, ma le sue gambe erano rimaste magre come grissini. Nonostante questo partì con l'acceleratore, tirando basso per sfruttare la poca agilità di quel gigante alto un metro e ottantasette, che invece tentava in tutti i modi di raggiungere la rete, dove diventava un muro.

Mi avvicinai con cautela, avvertendo la tensione tra le due squadre. Mi sedetti tra Orlando e Riccardo, fissando il campo. Tra di noi imperava un silenzio polare, che investiva il resto della gente intorno a noi. Erano tutti in attesa che accadesse qualcosa, noi compresi. Stavamo aspettando solo il momento giusto.

E anche loro. Sentii uno sguardo insistente cercarmi, e quando mi voltai capii che era Bratty. Dalla panchina avversaria mi fissava in silenzio, minacciosa. Ebbi un brivido, e tornai a guardare la partita. Ogni volta che Hugo colpiva la palla sentivo lo stomaco annodarsi sempre di più, e trattenevo il respiro.

L'equilibrio si spezzò con il terzo punto del sesto game, sul punteggio in perfetta parità. 

Un lungo scambio, giocato sui lati lunghi con l'obiettivo di spostare il più possibile l'avversario, terminò al ventiquattresimo colpo, quando il diritto incrociato di David si arrese sulla rete. La nostra panchina era saltata in aria, e da quel momento il silenzio gelido si ruppe.

David aveva cominciato a urlare e incitarsi durante i punti, le due panchine incitavano i propri giocatori irrequiete, Hugo aveva attaccato con i suoi numerosi tic. Aggiustava l'orologio, sistemava la fascia dei capelli, la maglietta, le calze, guardava in basso e strisciava il piede sinistro per pulire la riga davanti a sé, in quell'ordine. 

Grosso evidenziò ridacchiando il suo modo di fare e Orlando digrignò i denti, nervoso. Odiava il suo spolverare ossessivamente le righe, non lo sopportava. Molte volte in allenamento gli aveva urlato di smetterla, senza successo. 

Dall'esterno i ragazzi del TCI bisbigliavano commenti cattivi nei suoi confronti, ma lui non sembrava neanche accorgersene. Realizzai che in alcuni casi fingere di non capire la lingua portava i suoi vantaggi.

Il match continuò in perfetta parità. La situazione era tesissima, e non riuscivo a smettere di controllare il gruppo del TCI senza farmi notare:  eravamo a pochi metri e io non potevo affrontarli, parlare con Grosso. Chiedergli perché il suo amico non ci fosse.

- No! – urlò Orlando. Mi svegliai dai miei pensieri. Non avevo idea di cosa stava accadendo. Adesso erano tutti in piedi, sporti sulla bassa rete di recinzione.

- Che cazzo dici? Ma non ci vedi? – gridò Alessandro rivolto verso Grosso e sempre più immerso nella parte di accompagnatore del gruppo A.

- Hai qualche problema? – gli rivolse con astio l'altro.

La Fenice #1 [La Fenice Series]Where stories live. Discover now