LXXVIII. - L'amara verità

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Non riuscii a ricordare un periodo della mia vita così fitto di incubi come quello che seguì il mio incidente. A volte mi sorprendevo in classe, nello spogliatoio, in campo, a mandare e rimandare indietro quelle scene nella mia testa.

Orlando non era il responsabile di quegli atti di bullismo, ma aveva le sue colpe. Iniziai a pensare che quel "non fidarti di nessuno" che Giulia mi aveva detto in sogno includesse anche lui. Mi ero fatta trascinare dalle suggestioni di quel sogno, e avevo perso tempo prezioso per indagare su Ivan, che aveva così avuto il tempo di far perdere le sue tracce.

Se c'era una cosa in grado di consolarmi adesso, era solo il tempismo della mia aggressione. Jade non aveva perso l'occasione di trasformarmi in una vittima. E dopo la CS non c'era niente di meglio che questo per distogliere dall'attenzione dalla sconfitta. 

La gente si schierò subito dalla mia parte. Chiunque, dentro e fuori l'accademia, non faceva altro che chiedermi se stessi bene. Il divieto di Cresci di avere contatti con televisioni e giornali a parte quelli strettamente interni alla Fenice non fece altro che mitizzare la mia figura. Gli sponsor che tanto mi avevano evitato nei mesi precedenti adesso intasavano la linea telefonica di Jade.  

Eppure, non riuscivo a godere di quelle attenzioni. Il prezzo da pagare era stato troppo alto: la pena delle ferite, l'impossibilità di rimanere da sola in una stanza senza entrare nel panico più profondo, senza uscita. L'ansia che mi saliva all'interno di un ascensore, la paura del buio. 

Nonostante tutto, mi mantenevo concentrata sulla convalescenza. Tutte quelle ore di fisioterapia cominciavano a sortire i loro effetti, ma avevo ancora problemi di equilibrio e per questo il mio calendario era tornato vuoto. Cercavo di rimanere positiva.

Giulia tornò alla Fenice dopo qualche giorno, portando con sé una massa di interrogativi su quale sarebbe stata la sua sorte. Il primo giorno era rimasta a lungo nella stanza di Cresci, e dai campi io e gli altri tentavamo di cogliere qualcosa senza successo.

Erano le tre del pomeriggio quando la vidi arrivare alla Fenice. Io stavo facendo qualche esercizio di stretching in campo insieme a John. Ci guardò da lontano e ci fece un cenno, ma non sembrò volersi avvicinare. Ricambiai, alzandomi. Non sapevo cosa dirle, non sapevo neanche perché mi stessi avvicinando. 

Le feci un cenno, e lei rimase ferma. Poco dopo scorsi sul suo volto un sorriso di circostanza, e mi accorsi che forse anche io non sapevo bene come comportarmi. Ero nervosa, ma non riuscivo a coglierne il motivo.

- Giu! - dissi, avvicinandomi. Eccolo, il momento. Giulia era proprio davanti a me. Schiarii la voce e cercai di comportarmi in maniera naturale, sperando che non si accorgesse dello sforzo.

- Beca, ciao - disse, ricambiando il mio abbraccio con distacco. 

- Ho saputo quello che ti è successo, come stai?

- Meglio. E tu? Quando sei tornata?

- Questa mattina. L'SV ha viaggiato tutta la notte - rispose con compostezza, lanciando di tanto in tanto qualche occhiata fugace alle mie spalle.

- E negli scorsi giorni dove sei stata?

La mia finta naturalezza non era abbastanza e lei mi rivolse uno sguardo dubbioso mentre rispondeva al terzo grado.

- In Australia, ma li è ormai autunno e ho deciso di tornare. Era arrivato il momento – sorrise.

- Ci sei mancata. – dissi, e l'abbracciai ancora. 

– Anche voi, a me – rispose con così poca convinzione da farmi venire i brividi.

In quei pochi secondi mi sembrò di vagliare la possibilità di chiederle se quella conversazione fosse avvenuta davvero una moltitudine di volte, ma mi sembrava patetico. Allo stesso tempo, non sapevo come affrontarla e spiegarle ciò che era successo in sua assenza.

La Fenice #1 [La Fenice Series]Where stories live. Discover now