CAPITOLO 43.

90K 3.8K 576
                                    

JACOPO

Metto in moto la macchina e parto. Appena mi fermo a un semaforo rosso, ne approfitto per chiamare Carmela. Voglio assicurarmi che non ci sia mio padre. È anche per colpa sua, se ho rotto con Rebecca.

Mi sale la rabbia solo a pensarci.

Chiamo la donna che mi ha fatto da seconda madre per una vita intera e lei mi risponde subito.

«Jacopo, mi stavo preoccupando. Che è successo?», chiede lei preoccupata.

«Tranquilla, sto bene. Lui è in casa?».

«No, è partito, perché?».

«Sto arrivando».

Chiudo la chiamata e accelero per arrivare prima.

Quando arrivo davanti all'enorme cancello, prendo un telecomando dal cruscotto e premo sul pulsante. Dopo pochi secondi il cancello si apre.

Mio padre mi ha dato questo telecomando in caso mi venisse voglia di venirlo a trovare, ma l'ho usato solo per portare le ragazze e scoparmele quando lui era in viaggio per lavoro.

Entro con la macchina nell'enorme cortile e la parcheggio davanti all'entrata, quasi sotto al porticato.

Prendo la busta – magari Carmela può stendere i vestiti ad asciugare – ed entro.

«Sono qui!», urlo. Subito dopo sento dei rumori, simili a dei vassoi che cadono. «Carmela?! Tutto bene?».

La vedo uscire dalla cucina con un vassoio pieno di biscotti e pasticcini. Rimane delusa, quando mi vede.

«C'è qualcosa che non va?», chiedo.

«Dov'è Rebecca?».

Mi aspettavo questa domanda. Abbasso la testa e non rispondo.

«Avete litigato?».

«Non stiamo più insieme... Basta parlarne. Puoi stendermi questi vestiti?».

Va in cucina per posare il vassoio e poi ritorna da me, strappandomi la busta di mano.

La guardo perplesso mentre se ne va.

«Ti ho fatto qualcosa?». La seguo fino alla lavanderia.

Prende i vestiti e li butta direttamente nella lavatrice, sbattendo poi lo sportello. Mette il detersivo nel cestino apposito e avvia la lavatrice.

Si gira verso di me, pulendosi le mani sopra al suo grembiule.

«Ti sei fatta scappare l'unica ragazza seria, Jacopo».

«Lo so. Ma evidentemente non siamo fatti l'uno per l'altro». Faccio spallucce ed esco dalla stanza.

Non mi serve la sua ramanzina.

«Sei tu che non sei fatto per lei!», urla dietro di me.

Mi fermo come se le sue parole mi avessero colpito dritto al petto.

«Cosa?», dico con la voce incrinata.

«Lei è fatta per te, ma tu non sei fatto per lei. Hai commesso troppi sbagli. Ricordi l'ultima cena con tuo padre? Ricordi quanto male le hai fatto? Dovresti provare a cambiare», dice seria.

«Ho diciannove anni, cazzo! Non ho bisogno delle tue ramanzine da mamma, so come gestire la situazione», le urlo contro girandomi, ma abbasso la voce quando pronuncio la parola "mamma".

«Io volevo solo aiutarti, ma vedo che è inutile». Si rattrista.

«Io non volevo...».

«No. Va bene così. Sul tavolo ci sono dei biscotti, se li vuoi. Buonanotte».

Mi supera e sale le scale. Sento la porta chiudersi e capisco che è andata in camera sua.

Perché devo rovinare sempre tutto? Non ne faccio una giusta, ultimamente.

REBECCA

Comincio a correre verso il centro della città sotto la pioggia, in cerca di un taxi.

Vedo delle macchine avvicinarsi e inizio a sventolare la mano verso la strada, in modo che gli autisti possano vedermi.

Due macchine mi passano di fianco e mi schizzano. Faccio un salto all'indietro e urlo: «Stronzi maleducati!».

Riprendo a correre nella vana speranza che qualche taxi si fermi. A un certo punto sento un clacson che suona due volte dietro di me e mi giro velocemente. Un taxi si ferma e l'autista mi fa segno di salire.

Non ci penso due volte e mi fiondo all'interno della macchina.

«Grazie al cielo», dico sottovoce.

«Tutto bene, signorina?», chiede l'uomo girandosi verso di me.

Sembra giovane, nonostante le rughe intorno agli occhi.

«Sì, grazie a lei. Non si fermava neanche un taxi».

«L'ho intravista e, anche se ho finito il turno, posso portarla dove vuole».

Gli occhi verdi dell'uomo vengono attraversati da una scintilla, e un sorriso spunta sul suo viso.

Ha un non so che di familiare.

«Gentilissimo, grazie! E non mi dia del lei, ho solo diciotto anni», sorrido.

Si gira per guardare la strada e mette in moto.

«Anche mia figlia ha diciotto anni, sai?».

«Oh».

«Dove ti porto?», chiede mentre è fermo a un semaforo.

«Qui», rispondo porgendogli la lettera con l'indirizzo.

Il taxista prende in mano la lettera, la fissa e rimane come imbambolato.

«Tutto bene signore?».

«Tu, come hai fatto ad averla?», chiede scioccato, indicando la lettera.

«Me l'hanno spedita».

Continuiamo a fissarci senza dire nulla, finché mi si accende una lampadina: «Papà?».

«Rebecca?».

Restiamo a guardarci stupiti fino a quando una macchina dietro di noi suona il clacson.

Quante possibilità c'erano che incontrassi mio padre su un taxi?

Compagni di StanzaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora