CAPITOLO 38.

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Trascorriamo il resto del tempo in silenzio. Si sentono solo i nostri respiri e il rumore degli stracci e delle scope.

Mi sento un po' in colpa, ma so che ho fatto la scelta giusta.

Guardo l'ora sul mio orologio che ho comprato dal negozio dei cinesi vicino a casa di mia madre e sbuffo. È iniziata la lezione di Italiano e io ho appena finito.

«Perché sbuffi?», chiede Jacopo dopo un'ora buona passata in silenzio.

«Ho Italiano, adesso».

«Ah».

«Vado a cambiarmi».

Ritorno negli spogliatoi femminili, mi tolgo la maglietta ancora umida, la piego e la poso sulla panca. Prendo la camicia e l'abbottono, indosso la gonna e sono pronta.

Metto i pantaloncini e la maglietta bagnata dentro alla sacca ed esco dallo spogliatoio. Devo ricordarmi di mettere a lavare la maglia appena arrivo a casa.

«Se vuoi, possiamo fermarci qui a parlare per far passare quest'ora». Jacopo spunta da dietro l'angolo e mi spavento.

«A parlare?». Cosa c'è di male a parlare? Niente, ma se si tratta di Jacopo Venturi, bisogna aspettarsi tutt'altro che parlare.

«Sì, voglio solo parlare», sghignazza.

«Allora va bene».

Andiamo a sederci nelle panchine subito fuori alla palestra, nell'unico spazio verde di questa scuola.

Rimaniamo in silenzio, finché Jacopo fa la domanda fatale: «Perché te ne sei andata da casa di tua madre?».

«Questioni economiche», rispondo semplicemente senza aggiungere altro.

«Capisco».

«Tengo a precisare che tutti i miei abiti e le mie scarpe me li sono pagati io, faticando molto». Di solito la gente tende a giudicarmi, quando vede che indosso abiti di marca, senza sapere nulla.

«Lo sospettavo. Cosa facevi prima di venire qua?». Non gli ho mai detto della mia vita nella città in cui abitavo.

«Be', ho iniziato a giocare a pallavolo a undici anni. Prima però mia madre mi aveva iscritta a danza, ma dopo due settimane l'insegnante mi ha buttata fuori. Diceva che non avevo il piede giusto e quelle cose lì».

«Il piede giusto?». Jacopo inizia a ridere senza sosta.

«Sì!». Rido appena.

«Okay, va bene, continua pure». Si lascia scappare un'altra risata e io continuo.

«Quando ho iniziato a giocare a pallavolo, ho subito capito che quello era il mio sport. Nel giro di un anno sono entrata a fare parte della squadra più forte del paese, ero contentissima. Avevo una vita perfetta fino a quando mia madre non mi disse che mio padre era morto nell'incendio che scoppiò nella fabbrica in cui lavorava. Effettivamente l'incendio c'è stato, quindi ci cascai in pieno. I suoi funerali non vennero celebrati, perché il corpo non venne trovato tra i detriti. Da quel momento ho buttato le ginocchiere e tutte le mie divise da pallavolo e mi sono promessa che non avrei mai più giocato».

Jacopo si gira verso di me e mi guarda dritta negli occhi.

Mi tremano le mani. Sarà per via dei ricordi che riaffiorano, o forse per il suo sguardo.

«Io... non so che dire, mi dispiace», dice spostando lo sguardo sulle sue mani.

Mi sento sollevata, quando smette di guardarmi.

«Ti dispiace? E per cosa?», chiedo.

«Per tutto ciò di cui mi hai parlato».

«Mio padre è vivo e io sto bene. Non c'è niente di cui dispiacersi». Mento.

«Stai bene?».

«Sì, mai stata meglio». Mento di nuovo.

«Oh». Sospira.

«Già».

Il silenzio cala nuovamente su di noi. Forse avrei preferito fare lezione di Italiano, che stare qui in silenzio.

«Mi dispiace, non volevo ficcare il naso nella tua vita», dice di punto in bianco.

Il mio cuore ha un sussulto.

Si è pentito di ciò che ha fatto?

«Ti dispiace?», chiedo confusa e spaventata.

«Sì. Guardaci». Con il dito indica noi due. «Non stiamo bene e si vede. È tutta colpa mia. Dovevo lasciarti stare fin dall'inizio».

È ufficiale: si è pentito.

Annuisco cercando di trattenere le lacrime che minacciano di uscire.

Mi alzo e mi metto a posto la gonna. Voglio andarmene da lui.

«No, rimani. Ti prego». Mi afferra la mano e mi fa risedere.

Non dico una parola.

Sapevo che sarebbe andata a finire così.

No, in realtà non lo sapevo.

Che delusione.

Una lacrima mi tradisce e scorre sulla mia guancia.

«Perché piangi?», chiede subito.

Mi asciugo velocemente la lacrima e come se non fosse successo niente dico: «Non sto piangendo».

Mi mette due dita sotto il mento e mi fa girare il viso.

Ora i nostri occhi sono si guardano. Mi mette una ciocca di capelli dietro l'orecchio, delicatamente.

«Posso... Posso darti un ultimo bacio?».

Ultimo bacio? Questo è il nostro ultimo bacio?

Annuisco cercando di mandare giù il boccone più amaro.

Posa le labbra sulle mie e si stacca. Un bacio casto. Non uno dei suoi.

«Ehi! Voi due! Che ci fate là fuori! Dentro a fare lezione!», urla dalla finestra il bidello.

Ci mancava solo lui.

Mi alzo e inizio a camminare senza degnare di uno sguardo Jacopo, ma una mano mi fa girare e sento delle labbra posarsi sulle mie.

Questa volta non è un bacio innocente.

È un bacio voglioso, passionale.

Ci stacchiamo, senza fiato.

«Ultimo bacio», sussurra Jacopo poggiando la sua fronte contro la mia.

«Ultimo ti amo», dico con un filo di voce. E me ne vado.

Compagni di StanzaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora