CAPITOLO 18

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JACOPO

Le lezioni sono finite, ma Rebecca non è ancora uscita. La sto aspettando da mezz'ora e sto perdendo la pazienza. Dopo quello che è successo con Christian, non l'ho più vista.

Si sarà cacciata in altri guai? Vedo Davide corrermi incontro, preoccupato.

«Ehi, amico che succe...». Non mi fa finire la frase che mi prende per il braccio e incomincia a correre.

«Rebecca! Pugni! Christian!», urla.

«Fai una cazzo di frase di senso compiuto!». Lo fermo o gli faccio riprendere fiato.

«Rebecca sta picchiando Christian. Non si vuole fermare. È in cortile».

Corro verso il cortile e vedo una cerchia di persone. Senza chiedere permesso, spintono tutti finché arrivo in mezzo al cerchio.

«Che cazzo ti ha fatto lei?! Ragiona, Christian! Non puoi fare così! Sei come tutti gli altri. E io che ti credevo diverso», urla Rebecca dando dei piccoli pugni sul petto di Christian. «Non ti senti in colpa per aver detto una cosa del genere a una ragazza?», continua. «Io mi sarei vergognata tantissimo». È arrabbiata.

La stringo in vita con un braccio e la alzo da terra.

«Non toccarmi!», urla dimenandosi.

La porto in braccio fino al cancello della scuola. «Calmati, ora». Le tengo il viso fra le mani e la guardo negli occhi.

«Lasciami, per favore. Torno a casa a piedi», mi supplica.

Rebecca Gaetani che supplica qualcuno? Questa mi è nuova.

«Sali in macchina». La mia voce è dura.

«Ho detto di no. Non ti ci mettere anche tu, Jacopo». Toglie le mie mani dal suo viso e si allontana.

«Porca troia!», urlo sbattendo il pugno contro la portiera della mia macchina.

Perché deve sempre scappare?

REBECCA

Voglio piangere, ma non ci riesco. Vorrei smettere fi respirare in questo preciso istante, ma non ho il coraggio di farlo. Sono una codarda. Non so affrontare i problemi come dovrei.

Scappo sempre.

«Vaffanculo!», urlo dando un calcio a una pietra.

Perché tutto questo?

Perché questa vita?

«Ehi, scusami». Una voce femminile mi riporta con i piedi per terra.

«Che vuoi?», chiedo scocciata alla ragazza che ho davanti.

«Scusami, ma vorrei ringraziarti per quello che hai fatto. Sono la ragazza... Be'... Della sveltina con Christian». Diventa subito rossa.

«Non volevo risponderti male. E comunque ho fatto solo quello che dovevo fare. Certo che non picchio Riccioli d'oro tutti i giorni, ma quando ci vuole ci vuole». Faccio spallucce e continuo a camminare.

«Frequentiamo lo stesso laboratorio di fotografia», dice all'improvviso la ragazza.

Mi fermo e mi giro verso di lei.

«Ma tu non sei del terzo anno?», chiedo tranquilla.

«Sì, ma mi hanno permesso di frequentare il laboratorio del quarto anno perché sono avanti con il programma», risponde sorridendo.

È davvero una bella ragazza. Semplice. Capelli neri raccolti in una treccia di lato, occhi azzurri senza un filo di trucco e alta come me. Indossa una camicia bianca e dei jeans a vita alta. Il tutto abbinato con delle ballerine nere.

«Oh, bello», mi limito a dire.

«Mi dispiace per quello che è successo con tuo padre», dice giocando con la punta dei capelli.

«Senti. Non nominare mio padre. Non dire che ti dispiace perché tanto non è così!». Quasi urlo, ma poi mi accorgo di aver esagerato. «Scusami, ma è un argomento di cui non voglio parlare. Ora devo andare. Ci si vede in giro.» La saluto con un cenno del capo e cammino verso casa.

«Margherita. Mi chiamo Margherita», urla dall'altra parte della strada.

Margherita. Che bel nome. Mi piace.

Mi è venuta fame. Molta fame, ma sono quasi vicina a casa.

«Sono a casa», dico appena varco la soglia di casa.

Jacopo non mi risponde. Chissà se c'è, o dov'è andato.

Mi tolgo le scarpe e vado in cucina. Cerco di prendere un piatto dalla dispensa, ma è troppo alta.

«'Fanculo me e la mia bassezza», impreco.

«Aspetta. Te lo prendo io». La voce di Jacopo rimbomba nella cucina.

«Grazie», sussurro.

«Cos'è successo oggi?», mi chiede Jacopo freddamente.

«Tante, troppe cose». Afferro il piatto e lo riempio con l'insalata di ieri sera.

«Cosa è successo? Di cosa parlavi con Christian in corridoio? Perché lo hai picchiato di nuovo?». Jacopo fa domande a raffica.

«Signorino, troppe domande. Risponderò solo a una di queste. Scegli te quale». Prendo un pomodoro con la forchetta e lo metto in bocca.

Jacopo è pensieroso, fissa il pavimento.

«Voglio sapere di cosa parlavi con Christian in corridoio. Riguardo alla verginità». Mi guarda con quegli occhi color ghiaccio e io rabbrividisco.

Quasi mi strozzo quando sento quello che ha detto.

Perché lo vuole sapere?

«Anche i dettagli?», chiedo timidamente.

«Anche i dettagli», risponde più serio che mai.

«Avevo quindici anni. Era agosto. Quella sera sono andata a una festa con delle amiche. Ho incontrato un ragazzo. Era perfetto. Ci siamo parlati, abbiamo ballato, ci siamo conosciuti. Avevo bevuto molto, come una spugna, ma lui era ancora sobrio. Mi incitava a bere e io lo facevo, finché non sono collassata a terra. Mi sono svegliata il giorno dopo sulla spiaggia con il vestito e le gambe piene di sangue. Credevo che mi fossi tagliata in qualche modo, ma quando mi sono alzata un dolore mi ha trafitto il basso ventre. Non volevo crederci». Prendo un respiro lungo: «Mi hanno stuprata. Sono tornata a casa e ho cercato di dimenticare tutto l'accaduto, ma con scarsi risultati. Le settimane passavano e io mi sentivo male. Vomitavo spesso e avevo la nausea. Non credevo che fosse quello. Non volevo crederci». Comincio a piangere: «Ero incinta. Mia madre, quando l'ha scoperto, mi ha obbligata ad abortire, e così ho fatto. Mi faccio schifo da sola».

Jacopo si alza e mi abbraccia forte. Come se potesse prendersi lui tutto il dolore che provavo all'epoca.

«Ora ci sono io. E ti prometto che ti proteggerò da tutti e da tutto. Ti amo, Rebecca», dice stringendomi più forte.

«Ti amo, Jacopo». Lo stringo ancora più forte.

Voglio che il tempo si fermi. Ora.

Voglio rimanere per sempre tra le sue braccia.

Compagni di StanzaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora