CAPITOLO 41.

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Cammino velocemente per arrivare prima a casa e per cercare di scaldarmi. La neve qui non c'è, ma il freddo sì!

Sento il cellulare squillare e lo estraggo dalla tasca. Il vetro è tutto rotto e fatico a leggere il nome sullo schermo.

Dopo tre squilli capisco di chi è: Jacopo.

Si vorrà scusare per ciò che ha fatto, dovrebbe proprio farlo.

Cerco di rispondere ma il touch ha deciso di non funzionare. Dopo vari tentativi, la chiamata si chiude.

Sbuffo in modo rumoroso e solo ora mi rendo conto di avere una signora anziana vicino che mi guarda storto. Sorrido educatamente per poi continuare a camminare.

Finalmente arrivo sotto al palazzo e apro il portone principale.

Strofino i piedi sullo zerbino di fronte alla porta del mio appartamento e giro la chiave.

Una volta dentro, butto lo zaino sul divano e mi tolgo gli strati di vestiti che ho addosso.

Bene, sono le due meno un quarto.

Ho esattamente un'ora e quarantacinque minuti per prepararmi e un'altra ora per raggiungere la casa di mio padre, che da quello che ho potuto capire è fuori mano. Dovrò chiamare un taxi.

Vado dritta in camera e apro l'armadio per scegliere cosa mettere. Non potrò di certo indossare i miei soliti maglioni e jeans; anche se è mio padre, devo pur fareuna buona impressione.

Opto per dei jeans cachi, un maglioncino azzurrino da mettere sopra una camicia bianca e le Stan Smith. Potrebbero stonare, ma sono le uniche scarpe "eleganti" che ho.

Jacopo direbbe sicuramente che vestita così sono una vecchia, ma dato che ora non esercita più nessun effetto su di me, mi sento libera di fare ciò che voglio.

Mi prendo la biancheria intima pulita dal cassetto e vado in bagno.

Poso tutto sopra il lavandino, mi spoglio ed entro in doccia.

Finalmente posso concedermi una doccia rilassante, perché di rilassarmi ne ho davvero bisogno!

Dopo ben trenta minuti passati sotto l'acqua calda, esco dalla doccia e mi avvolgo dentro il mio accappatoio viola. Mi asciugo bene il corpo e inizio a vestirmi.

Dopo circa venti minuti esco dal bagno con i vestiti di questa mattina in braccio, e un forte odore di caffè mi formicola le narici.

Caffè? È possibile che sia così sbadata da aver acceso la macchinetta del caffè?

Entro in cucina e mi spavento vedendo qualcuno appoggiato al bancone che sta bevendo il caffè da una tazza.

«Ti ho chiamata quindici volte. Perché diavolo non rispondi?», tuona Jacopo.

Come ha fatto a entrare in casa senza che io gli abbia aperto? Certo! Ha ancora le chiavi!

Faccio un respiro profondo per cercare di calmarmi e di elaborare una risposta educata e calma.

«Perché si da il caso che tu mi abbia rotto il telefono quando stavi per investirmi». Prendo il cellulare poggiato sul mobile e glielo mostro.

«Credevo che si fosse rotto solo lo schermo», risponde.

«Credevi male».

Mi giro e porto i vestiti che ho in mano in camera e sento Jacopo borbottare qualcosa.

Odio quando borbotta alle mie spalle, lo trovo un atteggiamento davvero fastidioso.

«Dove vai?», chiede curioso entrando in camera.

«Da mio padre, come ti ho già detto oggi a pranzo».

Esco dalla camera scansandolo e andando in cucina. Devo fare in fretta se voglio essere lì a un orario decente.

«Senza nessuno?». Mi fissa come se stessi per fare lo sbaglio più grande del mondo.

Sul bancone vedo una tazza di caffè freddo e la prendo. Deve avermelo fatto Jacopo, è l'unico oltre a mia madre a sapere che mi piace solo il caffè freddo.

«Te ne ho fatto una tazza, proprio come piace a te», dice grattandosi la nuca, evidentemente imbarazzato.

«Grazie», dico bevendone un sorso.

«Ripeto: nessuno ti accompagna?», insiste.

«No Jacopo, nessuno mi accompagna», dico con nonchalance.

«Cosa?! Come pensi di arrivarci fino a lì senza una macchina?». Mette le mani sul bancone e mi guarda.

«Chiamo un taxi, semplice».

«Ma tu odi prendere il taxi!».

«Lo so, ma non ho altra scelta». Sciacquo la tazza e la metto al suo posto.

«Ti porto io», dice categorico.

«No», rispondo asciugandomi le mani.

«Sì», ribatte deciso.

«Ho detto di no. Non ti ho chiesto nulla e mai più lo farò. Quindi, se permetti, ora devo continuare a prepararmi».

«Se ti comporti così per il telefono, posso benissimo prendertene uno nuovo».

«Non è per il telefono. Non sono attaccata agli oggetti come lo sei tu. Torna pure a passare il tuo tempo con la ragazza che era con te in macchina oggi, io non ho bisogno del tuo aiuto», rispondo guardandolo.

«Perché devi fare queste scenate di gelosia?», mi urla contro.

«Non credere che sia una scenata di gelosia». Rido isterica. «Non mi importa più niente di te, fattene una ragione!».

«Ah, no? Non ti importava neanche oggi, quando ti stavo per scopare sopra il lavandino nello spogliatoio? Non raccontare cazzate, Rebecca».

Sto ribollendo dalla rabbia e non posso più trattenermi.

«Fuori di qui, ora!», gli urlo contro.

«Sei sempre così irritante, porca troia!», urla a sua volta.

«Sei tu che mi rendi irritante, fuori!», grido aprendogli la porta.

Mi guarda per un secondo e se ne va, urlandomi dietro un vaffanculo.

Sbatto la porta e mi ci appoggio sopra con la schiena.

Sono arrivata dall'amarlo all'odiarlo con tutte le forze che ho.

Mi calmo e torno in bagno per finire di prepararmi.

Decido di raccogliere i capelli in uno chignon e di non truccarmi. Metto solo del burrocacao sopra le labbra, un po' di profumo e sono pronta.

Esco dal bagno con l'intento di chiamare un taxi, ma mi ricordo che il cellulare è rotto e non posso chiamare nessuno.

Perché capitano tutte a me?

Mi tocca andare fino in centro e trovarne uno da sola. Di male in peggio, insomma.

Prendo la lettera con l'assegno dentro e la tengo ben stretta in mano.

Afferro il giubbotto, la sciarpa, li indosso ed esco.

Guardo l'ora sull'orologio al polso e comincio a correre. Sono le tre e trenta!

Appena metto piede fuori dal portone del palazzo, mi accorgo che sta piovendo.

Ma davvero? Davvero?

Compagni di StanzaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora