CAPITOLO 33.

99.7K 4.7K 274
                                    

Entro in casa, vederla così deserta mi fa una strana impressione.

Getto le chiavi sul tavolo e corro veloce in bagno. Mi levo il vestito e lo lascio per terra, ho deciso che più tardi lo butterò nella spazzatura. Apro il rubinetto dell'acqua calda e il disinfettante e delle garze.

Infilo il braccio sotto l'acqua e tolgo il sangue ormai secco dal braccio. Fortunatamente ho solo dei tagli superficiali. Disinfetto le ferite e metto avvolgo la garza.

Non ho voglia di fare più nulla, voglio solo andare a dormire e dimenticare questa orribile serata.

Di dormire nella camera matrimoniale non se ne parla proprio, quindi opto per il divano.

Vado in camera da letto, ma solo per prendere il cuscino, e l'occhio mi cade sulla busta bianca sul comodino.

Me ne ero completamente dimenticata!

La prendo e la apro piano, la maneggio come fosse una bomba pronta a esplodere.

Tiro fuori la lettera e prima di iniziarla a leggere faccio un lungo respiro.

Cara Rebecca,

mi dispiace molto non esserti stata accanto in questi anni. Ora sei adulta e hai tutto il diritto di sapere ciò che è successo veramente. Non devi avercela con tua madre, ti ha mentito per il tuo bene.

Ora, mia piccola Rebecca, se vuoi venirmi a parlare faccia a faccia, questo è l'indirizzo di casa mia: via Vittorio Emanuele III, n. 9

Se non vorrai venire, ti capirò benissimo, ma ti prego, ti scongiuro di darmi almeno un'altra possibilità!

Ah! Il pezzo di carta che c'è nella busta insieme alla lettera è un assegno da milleduecento euro, un regalo da parte mia per te e per Jacopo!

Se me lo riporterai indietro, mi offenderò, sia chiaro!

Papà.

Apro la busta e tiro fuori l'assegno.

Milleduecento euro! È una somma troppo grande! Ora cosa faccio? Gli vado a parlare? Ignoro la lettera? Rispedisco l'assegno? Per stasera basta!

Rimetto tutto nella busta e me ne torno in salotto con il cuscino sotto il braccio.

Mi butto a peso morto sul divano e in men che non si dica mi addormento.

La mattina dopo

Mi sveglio disturbata dalla luce e mi stropiccio gli occhi.

Quando li apro, mi rendo conto di essere nel letto insieme a Jacopo, che mi stringe la vita con il suo braccio.

Potrebbe sembrare un gesto dolce, ma alla luce di quanto è accaduto ieri sera, non posso non pensare che l'abbia fatto solo perché è possessivo e vuole farsi perdonare. Ormai lo conosco fin troppo bene.

Tolgo il suo braccio dalla mia vita e mi metto a sedere. Ieri sera deve aver bevuto così tanto che quando si sveglierà avrà un mal di testa atroce.

Mi giro a guardarlo e quasi mi intenerisco. Quasi. Ha la bocca socchiusa, i capelli arruffati e indossa solo i boxer.

Gli guardo la mano e noto che le nocche sono sporche di sangue. Scaccio dalla mente i flashback di Jacopo che picchia suo padre e mi alzo.

Raccolgo i vestiti di Jacopo ed esco dalla camera. Metto gli indumenti nel cesto della biancheria sporca e raccolgo il mio abito, che avevo lasciato sul pavimento del bagno.

Entro in cucina, accendo la macchina del caffè e butto il vestito nel cestino.

Mentre il caffè si prepara prendo due pastiglie per il mal di testa dal flacone, riempio un bicchiere d'acqua e torno in camera da letto posando il tutto sul comodino vicino a Jacopo. In fondo è un essere umano anche lui.

Il caffè è pronto, sento suonare la macchinetta e corro in cucina.

Mi gusto la tazza di caffè, finché non mi accorgo di avere ancora la garza sul braccio. Sciacquo la tazza e la metto nel lavello, poi, delicatamente, mi tolgo la bendatura e noto che i tagli si sono più o meno cicatrizzati.

Accendo il cellulare, non lo controllo da almeno tre giorni e sono pronta a vederlo esplodere per le troppe chiamate e per i troppi messaggi. Invece no, trovo solo una chiamata persa. Sono delusa e sollevata allo stesso tempo.

Leggo il nome sul display: è Chiara. Cavolo! Non ho più chiamato né lei né Christian. Che razza di amica sono?!

Sto per premere il tasto della chiamata, ma un rumore mi distrae. La porta della camera da letto si spalanca e vedo uscire Jacopo. Ha la faccia di uno che sta soffrendo le pene dell'inferno. Con il bicchiere in mano, barcolla con addosso solo i boxer.

Dovrei ridere, ma sono più seria che mai. È ora di affrontarlo di petto.

«Buongiorno», dice posando il bicchiere sul tavolo.

Lo ignoro e faccio finta di mandare un messaggio, ma in realtà sto schiacciando tasti a caso.

«Grazie per le pastiglie e l'acqua, ma non hanno migliorato la mia situazione», continua, anche se non lo degno neanche di uno sguardo.

Odio comportarmi in questo modo, ma sto cercando di formulare un discorso sensato da fargli. Anzi, da urlargli in faccia. Così fa più effetto.

«Continuerai a ignorarmi?».

Poso il cellulare e lo fisso senza dirgli nulla.

«Allora? Ti ho fatto una domanda».

Nulla, non gli dico assolutamente nulla.

Fa due passi e mi viene vicino, al punto che posso sentire il suo respiro sul mio viso.

«Rispondimi, Rebecca». Digrigna i denti. È arrabbiato.

Eh no, mio caro Jacopo, quella che deve essere arrabbiata sono io e non te!

Mando a 'fanculo il discorso sensato che mi ero fatta nella testa e decido di rispondergli.

«Cosa dovrei dirti, eh?! Che hai rovinato una serata sia a me che a tutti gli altri?! Che ti sei ubriacato e mi prendevi per il culo insieme a quella tua ex troietta?! Dimmi, Jacopo! Io sono stufa, stufa, cazzo! Litighiamo sempre e finiamo per farci del male a vicenda, oppure separandoci! La nostra è una relazione malata e non c'è una stramaledetta cura!», urlo, ma l'ultima frase quasi la sussurro.

Jacopo indietreggia, come se le parole che ho pronunciato lo avessero ferito.

«Io te l'avevo detto fin dall'inizio che dovevi starmi lontano! Guardati. Ti ho trasformata in un mostro. Ho rovinato sempre tutto, ne sono consapevole. Ma se tu mi lasci, io non so come finisco. Io, io no! Non ci voglio neanche pensare. Non so cosa dirti, davvero. Non posso giustificarmi in alcun modo, perché ho torto marcio. Non posso chiederti di perdonarmi, perché lo hai fatto troppe volte e altrettante volte io ti ho delusa. Sono una fottuta merda!».

Il tono pacato e calmo che usa mi spaventa molto. Di solito sbraita, quando deve affrontare questo genere di situazioni.

Non so cosa rispondere, davvero.

«Va bene, ho capito. Vorrà dire che questa volta me ne andrò io». Non mi lascia il tempo di rispondere che se ne va in camera e dopo neanche dieci minuti esce vestito e con le chiavi della macchina in mano.

No. Aspetta, cosa? Diceva sul serio?

Apre la porta e prima di uscire dice: «Promettimi che ci penserai».

Annuisco e lo guardo andare via. Senza dire neanche una parola.

Compagni di StanzaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora