CAPITOLO 12.

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JACOPO

Mi sento uno schifo a vederla sdraiata su quel lettino.

È tutta colpa mia. Non dovevo farla uscire di casa. Non dovevo farle conoscere quello stronzo di Lorenzo. Dovevo proteggerla da tutto e da tutti e non fare il coglione con Elisa.

I medici hanno detto che ha perso molto sangue e, dato che non ha mangiato nell'ultimo periodo, si rimetterà nei prossimi tre giorni, non prima.

Tre fottuti giorni senza vederla sorridere.

Tre giorni senza sentire la sua voce.

Cazzo.

Le prendo la mano, gliela stringo e inizio a parlarle...

Senza che me ne accorga, una lacrima riga il mio viso. La rivoglio indietro.

REBECCA

Non riesco ad aprire gli occhi. Non riesco a muovermi. Dove sono? Cosa mi è successo?

Sento la voce di Jacopo, sta parlando con un uomo. Si sta avvicinando.

Sento qualcuno prendermi la mano, delicatamente, riesco perfettamente a riconoscere quel tocco. È il tocco di Jacopo. Dio, quanto mi sono mancate quelle mani.

«Piccola, ti ricordi quando ci siamo conosciuti? Io ti chiamavo "ragazzina", e tu ti sei arrabbiata e mi hai versato quella birra addosso. Se non fossi stata una ragazza, ti avrei appesa al muro. Più ti guardavo e più pensavo: "Cazzo quant'è bella". Sei bella anche la mattina con i capelli tutti disordinati. Per non parlare dei tuoi occhi. Quegli occhi verdi che mi hanno fatto letteralmente impazzire. E se penso a tutto quello che ho fatto, mi sento uno schifo. Ma tu sei mia. Resterai per sempre mia. E so che sei abbastanza forte per superare questa situazione. Ti prego piccola, torna da me. Mi manchi», dice Jacopo stringendomi la mano.

Vorrei dirgli che mi manca anche lui, che non deve sentirsi in colpa per quello che è successo.

Voglio dire qualcosa. Mi sforzo di dire almeno una parola, ma non ci riesco.

Rivoglio abbracciare Jacopo.

Voglio perdermi nei suoi occhi azzurri.

Voglio passare di nuovo le notti con lui.

«Sono pazza di te, Jacopo», riesco a dire sussurrando.

Finalmente sono riuscita a dire qualcosa.

Ora voglio aprire gli occhi, ma sono troppo pesanti.

«Piccola! Lo sapevo che saresti tornata da me. Parlami ancora, ti prego», mi supplica lui tenendo ancora la mia mano.

Gliela stringo anche io con le poche forze che ho e dico con un filo di voce: «Non me ne sono mai andata».

Tre giorni dopo.

«Hai messo tutto quanto nel borsone?», mi chiede Jacopo sorridente.

Solo Dio sa quant'è perfetto.

«Tutto quanto!», rispondo ricambiando il sorriso.

«Bene, ora finalmente ce ne possiamo andare da questo posto». Afferra il borsone, se lo mette in spalle e mi aiuta a sedermi sulla sedia a rotelle. Dovrò usarla per due settimane, finché le ferite non si saranno rimarginate e avrò recuperato le forze.

Usciamo dalla mia stanza e ci dirigiamo verso l'ascensore.

«Certo che mettermi in una stanza al quarto piano... Che palle», dico scocciata appena entriamo nell'ascensore.

«Io ne sarei felice», ribatte Jacopo divertito.

«Perché hai quella faccia? Cos'hai in mente?», chiedo con pizzico di paura.

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