Non fottere con la stronza sbagliata

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Nell'esatto momento in cui Kim Seokjin mise piede nell'appartamento dei Vitali, a parecchi chilometri di distanza, all'interno di casa sua, una povera donna camminava a destra e a manca istericamente, dentro il suo tailleur estivo firmato Chanel, facendo rintoccare con cadenza precisa il suono dei suoi tacchi a spillo lungo il corridoio. «È sparito!» ripeté in un sussurro per l'ennesima volta Kendall, portandosi le mani alla testa, ma stando attenta a non spettinasti. (Aveva passato due ore dal parrucchiere per farsi quella bella messa in piega che gli era costata un occhio della testa). La madre di Seokjin aveva una compostezza nella postura, nella camminata e nel portamento talmente elegante che nessuno avrebbe mai immaginato che fosse sull'orlo di una crisi di nervi; nessuno, tranne Elizabeth.

«Mamma?» chiese la quattordicenne appena la vide girare l'angolo del corridoio e camminarle incontro, spalancando gli occhi nel notare il collo rigido, le labbra leggermente arricciate tra loro, un occhio impercettibilmente più chiuso dell'altro, la camminata quel poco più veloce del solito. (Liz era una attenta ai dettagli, comunque).

Kendall la raggiunse e le si fermò davanti, guardandola con l'espressione disperata – sempre e solo agli occhi della figlia – e, assottigliando le labbra e parlando a voce bassa, le disse: «Lizzie, amore mio, non trovo tuo fratello».

Elizabeth spalancò la bocca e scosse leggermente il capo: «In che senso?»

«Nel senso che tra tre ore cominceranno ad arrivare i nostri ospiti, ma io non lo trovo da nessuna parte». Elizabeth arricciò le labbra leggermente preoccupata, sua madre si schiarì la voce decisamente in ansia. «L'ho cercato in camera sua, nel cortile, negli studi, in palestra, in cucina, ma», portò le mani davanti al volto e le congiunse, come se stesse pregando, «è sparito».

La quattordicenne incrociò le braccia al petto e fece scoccare la lingua al palato: «Magari sta cagando da qualche parte».

Kendall fece un profondo respiro e annuì poco convinta: «Spero per lui che abbia avuto un attacco di diarrea lancinante o mi avrà sulla coscienza quando morirò per un attacco di cuore». La figlia sollevò lo guardo al soffitto alla teatralità della madre, ma non disse nulla. «Comunque ora io devo finire di organizzare tutto, quindi cercalo tu, per favore».

Elizabeth provò a disfarsi da quel compito noioso – disse alla madre che doveva ancora cambiarsi, che non aveva idea di dove potesse essere, che non era mica la sua badante – ma alla fine fu tutto inutile, perché si ritrovò a girovagare per i corridoi della casa alla ricerca di suo fratello. (Non ci stava mettendo chissà quale impegno, tanto lo credeva in qualche bagno seduto sulla tazza del water, ma preferiva che a sua madre non venisse un attacco isterico). Passò buoni dieci minuti a guardare nelle varie stanze che ritrovava lungo il percorso, a intonare deboli e non molto preoccupati richiami per suo fratello – che erano partiti come "Jin" ed erano finiti come "brutto idiota" e "imbecille" – finché una figura a lei ormai ben conosciuta non gli apparve davanti.

«Jimin!» esclamò sorridendo e andandogli incontro.

Il giovane canadese era appena uscito dalla biblioteca di casa Kim – a mani nude, aveva solo riportato dei libri che aveva preso in prestito –, si girò verso di lei e ricambiò il sorriso in modo sincero, ma leggermente nervoso: «Ehi Liz».

Quando la quattordicenne lo raggiunse la prima cosa che gli chiese fu ovviamente: «Hai, per caso, visto mio fratello?»

Jimin si irrigidì: «Perché?»

«Perché non lo trovo da nessuna parte».

Il diciassettenne si portò una mano al collo, massaggiandoselo nervosamente: «Ehm, perché lo stai cercando?»

«Perché lo sto cercando?» chiese la più piccola confusa alle sue parole. Gli occhi della giovane si puntarono sul volto dell'invitato, ne osservarono il leggero rossore sulle guance, il puntare lo sguardo in un punto fisso dietro di lei, senza guardarla negli occhi. «Jimin, mi stai nascondendo qualcosa?»

Il canadese deglutì rumorosamente, spostò lo sguardo ancor più lontano dal viso della più giovane: «N-no?»

Elizabeth fece un passo avanti, ritrovandosi praticamente appiccicata al corpo di Jimin, guardandolo dal basso: «Jimin, non fottere con la stronza sbagliata. Guardami negli occhi». Il canadese dovette per forza obbedire, portando lo sguardo verso quello di Elizabeth, tanti centimetri più in basso. «Cosa mi stai nascondendo?»

Jimin prese aria con un grosso respiro e, tanto veloce da mangiarsi le parole, disse: «Tuo fratello ha chiamato un tizio e ha detto che avrebbe saltato la festa per uscire con questo».

Elizabeth fece un passo indietro spalancando la bocca, Jimin prese una seconda boccata d'aria dopo averla finita, portando una mano al petto. «Uscire con un tizio?» chiese a voce alta, non direttamente a Jimin, più per sentirlo dire con la propria voce, come se non ci credesse.

Jimin, però, che ormai era sull'onda dello sputare il sacco, disse: «Sì, mi pare si chiamasse Namjoon o almeno è come l'ha chiamato alla fine perché a inizio chiamata ha detto un'altr-».

«Namjoon!?» esclamò la sorella ripuntando lo sguardo sul canadese e spalancando occhi e bocca. «Stai scherzando!?». Jimin non capì il perché di quella reazione, ma scosse il capo per assicurargli che non stava scherzando. «Non ci posso credere, mi stai prendendo in giro». Jimin scosse il capo di nuovo, grattandosi la testa. «No, non ci riesco a credere. Devo vederlo con i miei occhi».

Jimin avrebbe voluto dirle che, purtroppo, non sapeva nient'altro di quella faccenda, che suo fratello aveva solo detto a quel Namjoon che lo avrebbe aspettato per saltare la festa, poi aveva chiuso la chiamata e lo aveva ringraziato di nuovo – senza dargli un altro bacio – e poi era uscito dalla sua stanza, augurandogli una buona serata. Jimin avrebbe davvero voluto dirglielo, ma Liz lo prese per mano e se lo trascinò via per il corridoio, chiedendo: «Sai guidare Jimin, vero?»

«I-io? Sì?»

«Hai la patente, si?»

«Ehm, si, ho la patente.» rispose leggermente preoccupato, ricambiando la presa della mano e facendosi trascinare giù per le scale «Ma perché?»

Elizabeth non gli rispose e fece bene, perché se Jimin avesse capito che piani aveva in mente la quattordicenne probabilmente se ne sarebbe filato a gambe levate, invece il povero diciassettenne si era ritrovato seduto in una Chevrolet Blazer – un enorme SUV nero e vistoso – al posto del guidatore, con un attacco d'ansia alle porte e una ragazza seduta al suo fianco che impostava il navigatore.

«Sto per morire.» si lamentò Jimin portandosi una mano al petto.

Elizabeth non lo degnò di uno sguardo, finendo di inserire il nome della via nel display della macchina: «Tranquilla, mamma dice che si guida che è una bellezza, intanto metti in moto». Jimin intonò un verso che sembrava quasi l'inizio di un pianto, ma fece come richiesto, girando le chiavi nel quadro. «Chissà se mio fratello si ricorda che ho le credenziali per trovare il suo iPhone».

«Ma i tuoi sanno che stiamo prendendo la macchina?»

Elizabeth si girò verso il ragazzo e fece un grosso sorriso rassicurante: «Ma certo, non devi preoccuparti di nulla».

Ovviamente era una bugia e – forse – lo sapeva anche Jimin, ma il diciassettenne annuì e diede gas, partendo per quella sua strana prima avventura.

I tre Pretendenti - {Namjin}Onde histórias criam vida. Descubra agora