Le liste di Jimin

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Jimin fissava la porta chiusa da buoni cinque minuti, immobile, facendo profondi respiri e balbettando a voce bassa saluti con parole diverse, in toni diversi, con espressioni facciali diverse. «Ehi!»; «Ti disturbo?»; «Seokjin, ciao»; «Bella giornata?». Provava e riprovava, cercando di capire cosa sarebbe stato meno imbarazzante dire, ma nulla sembrava convincerlo. «Dai Jimin,» provò a spronarsi da solo, chiudendo gli occhi e facendo un profondo respiro, «non ti mangia, fai quello per il quale sei venuto».

Il diciassettenne fece un passo avanti, sollevò il pugno e, dopo qualche istante, bussò alla camera di Kim Seokjin. Sapeva fosse all'interno, ne era sicuro, lo aveva sentito camminare, parlare al telefono – non aveva origliato le sue chiamate, solo aveva sentito un brusio di conversazione a senso unico, e non gli sembrava il tipo da parlare da solo. Sapeva fosse all'interno, ma i secondi passavano e di Seokjin neppure l'ombra. Jimin cominciò a sentire il suo cuore battere più veloce, lo stomaco stingersi, l'agitazione salire. Forse, cominciò a pensare il giovane, aveva capito che fosse lui e non voleva vederlo; forse era occupato; forse stava dormendo; forse stava in bagno e lui lo stava disturbando proprio nel momento meno opportuno. Jimin pensò che, davvero, scappare sarebbe stata la soluzione migliore, facendo finta – da quel momento alla fine dei suoi giorni – che mai fosse passato dalla sua camera e mai le sue nocche avevano battuto su quel legno duro.  Stava per girare i tacchi e andarsene, ma la porta si aprì: «Ah, Jimin! Tutto okay? Serve qualcosa?»

La mente di Jimin tornò al giorno di natale di dieci anni prima, quando era un bambino di otto anni, spensierato e senza pressioni sulle spalle, ancora ignaro che, un giorno, avrebbe dovuto ereditare l'azienda di famiglia. Il piccolo Jimin era stato messo a dormire presto, verso le dieci, dopo aver cantato le canzoni al piano con mamma e papà, dopo aver messo latte caldo e biscotti vicino all'albero di natale e dopo essersi messo nel suo pigiama a tutina rosso con disegnati sopra i cagnolini. (Jimin avrebbe messo quella tutina tutto il giorno, ma i suoi genitori gli avevano importo di usarla solo come pigiama. La lavavano ogni sabato e lui stava tutto il tempo a guardarla girare dall'oblò, in lavatrice, e poi nell'asciugatrice un'altra ora e mezzo, aspettando di poterla riavere tra le braccia). Quella vigilia si era messo sotto le coperte pieno di aspettative, in agitazione, senza riuscire neppure ad ascoltare la voce del padre che gli raccontava la favola della buonanotte; continuava ad interromperlo per fargli domande. «Quando arriverà Babbo Natale?»; «E se i biscotti non gli piacciono?»; «E se non sono nella lista dei buoni?». Finì anche per ritrovarsi con gli occhi lucidi all'idea di trovare del carbone sotto l'albero, ma il padre lo rassicurò dicendogli che era stato bravissimo. Jimin si addormentò a fatica, abbracciando forte il suo cavallo di peluche – che aveva chiamato "cavallino" – e chiedendo alle stelle luminose in cielo di portargli almeno uno dei regali che aveva chiesto. Quando il giorno dopo si era svegliato, appena capito che era mattina, saltò gli dal letto urlando, passò correndo davanti alla camera dei genitori – che si erano svegliati alle sue urla, ma che si erano solo sollevati seduti sul materasso, ancora mezzi addormentati – ed aveva sceso le scale. Quando Jimin si era trovato davanti all'albero spento, ma pieno zeppo di regali sotto d'esso, aveva cominciato ad urlare ancora di più, emozionato da morire, saltellando da un piede all'altro in agitazione, guardando tutti quei pacchetti chiusi in nastri colorati, non sapendo da quale cominciare. I genitori fecero appena in tempo a raggiungerlo quando Jimin aveva cominciato a scartare il primo, urlando nel trovare il pallone da rugby che aveva chiesto. «Guarda mamma! Guarda papà!» disse girandosi verso di loro – che per trovare quel modello e quel colore avevano girato tre supermercati, ma che in quel momento non furono mai così felici di averlo fatto. Suo padre andò a preparare la colazione, sua madre gli si sedette a fianco aiutandolo a scartare i regali più grossi o stretti troppo. Non mangiarono al tavolo, gli venne solo chiesto di fare qualche istante di pausa, porgendogli un bicchierone di latte caldo al cioccolato e imboccandolo con una forchetta con pezzi di pancake e sciroppo d'acero mentre continuava con i propri regali. Jimin era tanto contento che rischiò di farsela addosso e, ad un certo punto, corse al bagno, tornando dopo qualche minuto con le manine bagnate, le guanciotte rosse e dicendo ai suoi genitori: «Ho fatto la cacca.» da bravo bambino qual era. (Ricevette anche i complimenti, per aver evacuato). Quando Jimin finì di scartare tutti i regali era colmo di gioia e, nello stesso istante, deluso al massimo. La prima lista per Babbo Natale che aveva fatto e che aveva dato ai suoi genitori aveva all'interno un solo regalo. Sua madre gli disse che poteva chiedere di più, di aggiungere qualche altro dono e, sebbene Jimin avesse risposto che andava bene così, lo obbligò a scegliere qualcos'altro. Anche suo padre gli diede dei consigli su altri regali da aggiungere, quando notò che – rispetto al loro patrimonio – non erano molte le richieste del figlio. Quando era arrivato ad una lista di venti doni finalmente i suoi si decisero a spedirla. Sotto quell'albero, però, c'erano tutti i doni richiesti – e alcuni aggiuntivi – tranne quel primo regalo, quello che tanto aveva desiderato. «Sei felice amore?» chiese sua madre accarezzandogli i capelli. Jimin mostrò un'espressione tanto triste da far piangere chiunque, il suo labbro inferiore si incurvò verso il basso, tremò, i suoi occhi si riempirono di lacrime, ma rispose: «Tantissimo», perché non voleva lamentarsi. (Magari Babbo Natale li aveva finiti, o non era stato abbastanza bravo, o forse si era dimenticato, o lo aveva dato a qualcun altro per errore). Il piccolo Jimin fece finta di nulla e si mise a giocare con gli altri regali, scacciando via le lacrime, provando a non pensarci, mentre i genitori – che non avevano minimamente scordato quell'unico dono che aveva richiesto fin dall'inizio – provavano a non rivelargli subito dove fosse nascosto, per fargli una sorpresa ancor più grande. Jimin riuscì a tornare felice e sorridente velocemente, perché era davvero un bravo bambino e era riconoscente a Babbo Natale per tutto il resto che aveva ricevuto. Mangiò con mamma e papà, provarono ogni giocattolo, uscirono a fare una passeggiata, a fare un pupazzo di neve in giardino, cenarono, cantarono assieme canzoni natalizie e, alla fine, stanco dalla giornata, ma ancora pimpante per l'emozione, Jimin si fece il bagnetto con sua mamma, si fece asciugare i capelli con il phone, indossò la sua tutina e, finalmente, tornò nella sua stanza. Appena i suoi genitori aprirono la porta i suoi occhi si spalancarono e gli si bloccò il respiro nel vedere cosa ci fosse sul letto: un grosso – grosso davvero, face fatica a portarselo in giro per casa i giorni seguenti – orsetto con un bel fiocco rosso al collo e due occhi luminosi di vetro nero lo aspettava sul materasso. Jimin gli corse incontro, saltò faticosamente sul lettino, lo abbracciò scoppiando a piangere e si girò verso i suoi genitori: «È Fratellone Racconta Storie». I genitori si sedettero sul letto insieme a lui e gli spiegarono cosa dovette schiacciare per farlo parlare, quando Jimin capì fece tutto da solo: lo girò, infilò una piccola cassetta nella schiena, lo rigirò e gli schiacciò un pulsante sul fiocco tre volte. Jimin, per la mezzora successiva, rimase a bocca aperta a fissare l'orsetto muovere le braccia su e giù e la testa a destra e sinistra, mentre raccontava una favola della buona notte che mai avrebbe dimenticato. In quel momento, mentre guardava quell'orsetto, seppe di essere davanti alla creatura più meravigliosa del mondo.

I tre Pretendenti - {Namjin}Where stories live. Discover now