Prologo

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Se qualcuno avesse chiesto ad un forestiero di Wontville di dire qualcosa su quel paese avrebbe probabilmente avuto una dettagliata spiegazione di dove fosse ubicata: a meno di due ore dalla Statua della Libertà e da Central Park, se si prendeva la barca nel giro di mezza giornata si poteva raggiungere Alcatraz, a nord del Nebraska, così vicino al Texas da poter goderne del caldo e dei paesaggi fuori dalla città, ma mantenendo l'aria simile dei cittadini di Washington. Ed era così, erano tutte informazioni corrette, Wontville era esattamente lì, e negli Stati Uniti d'America, ovviamente.

Ma se qualcuno avesse chiesto agli abitanti di Wontville di spendere due parole sulla loro città probabilmente la prima cosa che avrebbe sentito in risposta sarebbe stata una domanda e, più precisamente, una domanda specifica: quale parte?

Wontville era una delle città più grandi per chilometri, con i suoi quattrocentomila abitanti, i sui ponti, i palazzi, le ville, i parchi, le scuole, i monumenti, il molo, la funivia, le grotte, le zone collinari e le tre metropolitane sotto l'asfalto. A Wontville potevi trovare qualsiasi cosa volessi, ma come tante altre città di yankee sembrava separata in due da una linea non poi così immaginaria: la ferrovia del tram separava la città in due metà quasi uguali – di metratura – ma tanto diverse da sembrar di fare un salto magico tra due mondi, se la si oltrepassava. La parte dal lato del molo era la parte della città che i suoi abitanti chiamavano reale e viva; viva, perché non c'era vita vissuta a pieno se non lottando ogni santo giorno; reale, perché ogni sensazione vissuta era moltiplicata dalle sofferenze e dagli sforzi per ottenere qualcosa. La parte del lato del molo, che tutti gli abitanti di Wontville chiamavano il ghetto, era abitato dalla maggioranza della popolazione – almeno il settanta percento – e pullulava di vita: ad ogni via c'era sempre movimento, che fosse per il mercato mattiniero, un gruppo di ragazzi che ballava cercando di racimolare qualche moneta, anziani seduti ad un tavolo a giocare a carte già leggermente sbronzi e molesti di prima mattina, bambini che avevano saltato la scuola e che giravano per il quartiere alla ricerca di cose da fare. Nel ghetto non ci si annoiava mai, tanto che tanti erano le casalinghe o gli anziani affacciati ai balconi che passavano le ore a guardare giù.

La parte di Wontville dal lato delle colline non c'entrava nulla con il ghetto; non aveva nomi speciali – veniva chiamata semplicemente Wontville o, se qualcuno del ghetto doveva andarci, poteva farsi capire dicendo "faccio un salto alle colline". Lì viveva la parte borghese della città, quella che contava, che faceva "andare avanti l'economia", come diceva il governatore – quale non è importante, lo dicevano tutti, ad ogni cambio di carica. Più ci si allontanava dalla ferrovia e più la parte ricca di Wontville diventava sfarzosa: vicino ai binari si potevano trovare già i primi ristoranti più ricercati, qualche scuola privata, se ci si allontanava di qualche traversa cominciavano ad apparire vetrine appariscenti di orologi preziosi e vestiti di marca, ancora più su – perché la strada saliva verso le colline – e cominciavano a intravedersi alti palazzi bianchi e puliti, nuovi, dal quale entravano e uscivano uomini e donne vestiti in giacca e cravatta; allontanandosi ancora, poi, si arrivava alle ville private, disseminate sulle verdeggianti colline con vista su tutta la città.

I ricchi che abitavano in quelle ville guardavano ogni mattina il sole risplendere sul mare e sui palazzi di tutta Wontville – ghetto compreso – mentre bevevano succo di pompelmo in veranda con toast integrali al salmone e avocado. I cittadini del ghetto avrebbero voluto far colazione guardando le ville sulle colline, ma quasi tutti si ritrovavano il palazzo a fianco al proprio a coprirgli la vista e decidevano di dimenticarsi di quella vita che mai avrebbero potuto raggiungere. Ovviamente non tutti gli abitanti del ghetto erano così pessimisti: c'erano famiglie che spingevano i figli a studiare per raggiungere quelle vette che mai loro avevano potuto sognare, ragazzi fortunati che erano nati con un dono ed erano riusciti a coltivarlo fino al raggiungimento della perfezione come quel giovane figlio di macellai che aveva imparato a suonare il violino e ora faceva parte dell'orchestra e viveva in uno di quei grandi palazzi scintillanti o come quella strana ragazza solitaria che scarabocchiava sempre sul suo quaderno e che si era fatta strada con i suoi disegni sui social, fino a diventare un artista riconosciuta; loro, come anche altri – sebbene non fossero così tanti – erano riusciti a scappare dal ghetto; il resto delle persone o falliva fino a non provarci neanche più o non ne aveva neppure interesse.

I tre Pretendenti - {Namjin}Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora