Domino

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Era buio da ore, i lampioni si erano accesi da tempo e fortunatamente per Namjoon faceva caldo, quella sera. Aveva spento il motore, aveva abbassato il finestrino e se ne stava fermo lì, nella sua auto, in quello spiazzale davanti alla casa dei Kim dove si era fermato altre volte, aspettandolo.

Namjoon si era licenziato da giorni, la mattina dopo che aveva ricevuto la sua ultima telefonata aveva chiamato il suo capo, l'aveva ringraziato e aveva detto che per lui la stagione era finita. Non aveva dovuto trovare neanche tante scuse, dato che il loro accordo era sempre stato aiutare alla villa fino alla festa. Poi la festa era slittata di qualche settimana ed avevano continuato ad andare, ma Namjoon gli aveva semplicemente detto che aveva altro da fare. Niente drammi, era passato poi a prendere il suo assegno e l'avevano anche incassato.

Aveva dovuto farlo, perché dopo aver pianto per ore aveva capito di dover fare qualcosa per andare oltre, per superare velocemente quella perdita. Lo aveva già fatto con sua madre, con tanti suoi amici, una persona in più non avrebbe cambiato nulla.

Eppure, anche se si era impegnato ogni giornata per non pensare a lui, anche se si era licenziato e aveva cancellato ogni traccia della sua esistenza, si era ritrovato davanti a quel cancello con la malsana voglia di scendere e suonare il campanello. Aveva voglia di vederlo, aveva voglia di pregarlo di tornare, voleva sapere cosa fosse successo, cosa avesse sbagliato e aveva una gran voglia di baciarlo. Per un solo istante si chiese se un bacio non avrebbe sistemato ogni cosa, forse tutto si sarebbe aggiustato come per magia, grazie all'amore.

A quel pensiero tanto stupido, decise di accendere il motore e reimmettersi sulla strada.

Guidò nel silenzio delle strade tra i boschi, nella notte, ascoltando il rumore delle ruote sull'asfalto e promettendosi di non tornare mai più. Arrivò nella zona del molo, continuò a guidare per la sua via di casa, trovò un parcheggio dopo aver fatto tre giri dell'isolato e scese pigramente dal pick-up. Namjoon si sentiva spento, si sentiva preso in giro, solo, completamente disilluso, ma mentre saliva le scale di casa pensava che avrebbe superato ogni cosa come sempre, con l'aiuto del suo mondo, quello che conosceva bene e che non lo avrebbe tradito.

Il suo mondo, però, crollò appena entrò in casa: «Papà, sono tornato».

Ma invece di un saluto o un rimprovero per l'ora – che comunque non gli faceva da anni, essendo grande – sentì fin dall'ingresso il rumore di un pianto, uno che conosceva fin troppo bene.

A Namjoon, gelò il sangue. Si tolse le scarpe in fretta e furia, solo per abitudine, e corse a piedi nudi in salotto: suo padre era poggiato con i gomiti sul tavolo, si teneva la testa con le mani, piangendo disperatamente sul legno, davanti a lui due bottiglie vuote di grappa scadente. Namjoon lo guardò dall'ingresso del salotto, immobile. Per un istante, per sfortuna, non pensò a Seokjin.

«Papà...» disse a voce bassa, impaurito da tutto, «Che è successo?»

Suo padre sollevò il volto, mostrando le guance rosse, gli occhi colmi di lacrime e l'espressione disperata: «Yoongi se ne va».

Namjoon scosse il capo: «No, hai capito male». Suo padre non continuò a combattere, si alzò barcollante e camminò verso la sua stanza, continuando a piangere sommesso, disperato da una situazione che non sapeva affrontare. Namjoon continuò a scuotere il capo anche da solo, a ripetersi che non poteva essere vero. «Ha capito male, è ubriaco».

Il giovane Vitali prese il telefono, fece per cercare il numero del suo migliore amico, poi si bloccò, come congelato sul posto. Non aveva idea del perché, ma decise senza ragionarci troppo che al telefono non avrebbe risolto nulla, che non c'era nessun reale problema, e che se fosse andato da lui ci avrebbero riso sopra, prendendo in giro suo padre.

Namjoon si infilò le scarpe di nuovo, urlò tra il pianto del padre che stava uscendo, chiuse la porta dietro di lui a fatica – le sue mani tremavano, anche se non c'era motivo di essere preoccupati. «È il mio migliore amico da sempre», si disse, se lo ripeté e continuò a dirselo nella mente mentre scendeva le scale, mentre correva per la strada, mentre risaliva in auto e mentre guidava con il cuore in gola.

Namjoon parcheggiò direttamente sul marciapiede, scese dall'auto e si infilò nel porticato di quella orribile casa di ringhiera che Yoongi aveva trovato due anni prima.

«Yoon!» urlò ancora al piano terra, sul terriccio bianco dove c'erano parcheggiate delle moto in cattivo stato, delle biciclette probabilmente rubate. Non sapeva perché aveva urlato, perché non aveva semplicemente salito le scale e aveva bussato alla sua porta.

Namjoon se ne stava immobile al centro del porticato, guardava in alto verso il primo piano, dritto sulla sua porta d'ingresso. «Yoongi!»

La porta si aprì, Yoongi apparve, ma non lo guardò torvo, non gli urlò di rimando che era un coglione e che poteva anche usare il citofono – che in realtà andava una volta sì e una no. Yoongi teneva gli occhi bassi, chiuse la porta dietro di sé e scese silenziosamente per le scale esterne, sparendo dalla vista di Namjoon per qualche istante.

Quando Yoongi si fermò, a due metri dal suo migliore amico, sollevò lo sguardo a fatica: «Joonie...»

A Namjoon bastò guardarlo: «Ma che cazzo hai fatto?»

Min Yoongi teneva le mani in tasca, era in imbarazzo, ma abbozzò un sorrisetto mal riuscito: «Lo sai che sarebbe successo».

Il signor Vitali aveva ragione: Min Yoongi aveva vinto e ora li aveva lasciati. La realtà dei fatti investì Namjoon come un treno; si sentì svenire, sentì la terra sotto i piedi svanire e tutto cominciò a girare. «Non... non capisco». Yoongi fece per fare un passo avanti, come per volerlo prendere, aiutarlo a sedersi e portargli dell'acqua, ma si fermò sul posto. «Non ha nessun senso, Yoongi, ti abbiamo tenuto come un cazzo di figlio, ti abbiamo allenato, non ti abbiamo fatto pagare un centesimo».

La realtà la sapevano tutti; la sapeva Namjoon, la sapeva suo padre, la sapeva Yoongi, così come la sapeva ogni ragazzo della palestra: senza Yoongi avrebbero chiuso.

«Lo so, Joonie, però ho dovuto farlo...»

Namjoon sembrò riprendere il controllo di sé stesso, puntò lo sguardo in quello del suo migliore amico e crucciò la fronte confuso: «Lo sapevamo tutti che prima o poi saresti andato altrove, che non siamo abbastanza per te!». Yoongi scosse il capo come se non fosse vero, ma le bugie gli si palesavano sul volto. «Lo sapevamo, ma pensavo che avessimo un accordo non scritto! Pensavo che saresti rimasto per qualche anno, giusto il tempo per darci la possibilità di ripagare i debiti, come ringraziamento di tutto quello che abbiamo fatto per te!». Namjoon non parlava più. Ogni frase alzava la voce e ora gridava. Le porte si aprivano per spiarli, per guardarli dal buio delle case e assicurarsi che non succedesse nulla, pronti a tirare su il telefono per chiamare la polizia. «Lo sai che ci stai distruggendo! Ho trovato papà a casa ubriaco».

«Sono passato prima dalla palestra, tu non c'eri».

Non era neppure una risposta, perché non c'era nessuna risposta per quel che Yoongi aveva fatto, non per Namjoon almeno. Non vi era scusa che tenesse: il suo migliore amico li aveva rovinati, aveva firmato con un'altra palestra, una cosa che loro non avevano mai fatto perché c'era qualcosa di molto più profondo che un pezzo di carta che li unisse – o almeno così credeva.

«Potevi aspettare...»

«Non potevo, Joon, mi hanno dato un ultimatum». Namjoon scosse il capo, lo guardò schifato. Yoongi fece un passo in avanti. Namjoon uno indietro. «Te lo giuro, Joonie, mi hanno detto che se non avessi firmato ora non avrebbero potuto più prendermi. Gli ha chiesto così un loro sponsor».

Namjoon fece per mandarlo a quel paese, poi si bloccò e trattenne il fiato per qualche istante. Fissò Yoongi negli occhi mentre un calore e una rabbia mai provata prima gli montavano dentro: «Che palestra? Che sponsor?»

Yoongi guardò l'altro spaventato, colpito dal suo sguardo e dalla sua improvvisa curiosità: «La palestra Jima. Mi hanno detto che hanno ricevuto ordini dalla Mahelo, quella degli integratori».

E Namjoon ricordava benissimo chi fosse il figlio del proprietario della Mahelo: «Kim Seokjin».

I tre Pretendenti - {Namjin}Where stories live. Discover now