Capitolo 6

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Per sto capitolo ascoltate Give me Love di Ed Sheeran a ripetizione o vi denuncio.

Lily's pov

La mattina è sempre stata un momento particolarmente difficile per me, ma non per i motivi che a un normale adolescente verrebbero in mente parlando del proprio risveglio.
È che la mattina mi fa paura.
Mi spaventa perché vuol dire ricominciare, vuol dire aprire gli occhi e tornare alla vita di sempre, quella che con una mano ti accarezza il viso e con l'altra ti riempie di ceffoni.
Non l'ho mai saputo perché, ma ho sempre avuto un'idea che per mancanza di coraggio non ho mai appoggiato.

Quando mi alzo dal letto sono sola.
Mia madre non c'è a prepararmi la colazione, è a lavoro. Mi alzo ed è buio, perché non c'è nessuno che mi alza le tapparelle per svegliarmi con un bacio.
Mi alzo e già so che sono sola.
Mi alzo e so che se faccio troppo rumore, mio padre potrebbe svegliarsi e semplicemente parlarmi.
E io non voglio che lui mi si avvicini.
Perché lui è il mostro che popola i miei incubi, è colui che avvelena il mio sorriso con le sue mani, quando me le stringe al collo. Quando mi guarda. Quando mi respira vicino.

È per questo che solitamente, al mio risveglio, sto zitta. Mi alzo, mi vesto, mi sciacquo e il viso e scappo a scuola.
Scappo dalla mia vita, che nonostante tutto continua a seguirmi, a restarmi appiccicata addosso come afa estiva.

Il problema è che ogni mattina è diversa dall'altra, ma posso affermare senza ulteriori indugi che questa è una delle peggiori.
Perché dopo essermi infilata una felpa e un pantaloncino, essere scesa al piano di sotto e aver appurato di essere sola (per fortuna o no, sinceramente, non saprei dirlo) mi siedo e sento una strana sensazione azzannarmi le viscere.
Anche se le mie mani sono avvolte intorno a una tazza calda di latte e miele, io sto male.
Mi sento inadeguata, qui, seduta sulla poltrona del mio salotto, a osservare la pelle pallida delle mie gambe mentre la mia mente corre (ma senza soffermarsi su niente).

È in momenti come questi, col silenzio a trapanarmi i timpani, che mi chiedo cosa io abbia fatto di male per meritarmi ciò che io ho sempre temuto: la solitudine.

Allora sorseggio un po' di latte caldo, cercando di cacciare indietro le lacrime che sento affiorare quando mi rendo conto di quanto mi faccio pena.
Ieri sera pensavo, pateticamente, di dimenticarmi almeno per un po' di tutto il marcio che si è insidiato nel mio petto, di tutto quel petrolio che mi avvelena il cuore.
Fa male, fa così male svegliarsi e rendersi conto che la vita è questa, è la mia e me la devo far andare bene.

Allora mi alzo, poso la tazza sul tavolino accanto alla poltrona, perché ho visto due bottiglie di birra vuote abbandonate sul pavimento.

Le afferro con la mano sinistra, perché la destra è occupata a sistemare alcuni ciuffi di capelli corvini che il mio chignon disordinato non è riuscito a trattenere.

Le getto nella nettezza quando arrivo in cucina, appoggiandomi poi al bancone e respirando profondamente.

È in momenti come questi, di grande desolazione, che mi torna in mente una frase per me molto importante, quasi essenziale, alla quale mi aggrappo per sperare di andare avanti.

La pronunciò il famoso Arthur Schopenhauer, che disse: «C'è un unico errore innato, ed è quello di credere che noi esistiamo per essere felici.»

E allora lui mi da speranza, perché mi fa capire che nessuno, nessuno, è realmente, completamente e sinceramente felice e appagato. Ci sarà sempre qualcosa, ci sarà sempre una cicatrice o una ferita aperta. Tutto sta nel saperlo nascondere.

Dangerous [hs]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora