Capitolo 65 - La maggior prova di disumanità

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Giulia

Sorseggio la bevanda dalla cannuccia. Sono passati diversi minuti, ma nessuna di noi ha osato proferire parola nel frattempo.

«Io... è bello essere con te» mormora Chiara. Quando cerco di leggere la sua espressione, tuttavia, lei sta già guardando altrove. Non le rispondo, giocando distrattamente col mio bicchiere. Ho tantissime domande da porle, eppure adesso la mia mente è vuota. Non trovo le parole giuste, ma non so nemmeno se ce ne siano davvero.

«Come...» si interrompe senza nemmeno provare ad ultimare la frase. «Come fai ad essere qui?»

La sua voce è tanto flebile da sembrare un sussurro. Non riesce nemmeno a rivolgermi un'occhiata veloce, non so se sia per la vergogna o per qualche altro motivo. Di sicuro il nervosismo si è già impossessato della sua gamba, che si muove in modo veloce e costante.

Quante cose non so più riconoscere di te, Chiara.

«Credo che tu lo sappia.»

Non mi faccio sentire molto più di lei. Nessuna di noi ha mai avuto un simile timore di parlare, non alla sola presenza dell'altra.

Scuote appena la testa. Per quanto mi sembri un gesto assurdo, lei ha un'espressione seria.

«C'è stato l'incidente, quello credo che lo ricordi anche tu.»

Un suo sussulto lieve e il modo in cui strizza gli occhi e serra i pugni alle mie parole bastano come risposta.

«Sono rimasta in coma per cinque mesi esatti....»

«Questo lo so.»

Il suo modo di interrompermi non è brusco o prepotente. Mantiene un atteggiamento mite, perfino dal modo in cui mi parla sembra voglia trattarmi con tutta la cura di cui è capace. Tutto questo mi sembra tuttavia in pieno contrasto con la sua precedente assenza.

Hai ventiquattro anni, non ti sembra il caso di essere onesta con te stessa ormai?

«Intendo adesso. Dopo il quattro di giugno.»

Spalanco appena gli occhi. Mi colpisce che si ricordi con tanta precisione la data in cui sono uscita dal coma, dato che non era nemmeno presente e non ha mai accettato di vedermi, nonostante le telefonate di mio padre e le sue preghiere di farsi viva anche solo per una chiusura definitiva, per me.

«Be', ho ricominciato a studiare. Ho dovuto rifare l'ultimo anno di liceo, gli esami integrativi non sono andati bene, come ci si sarebbe immaginati. Poi mi sono iscritta a psicologia, ora sono al secondo anno.»

Mi sento molto stupida a darle queste risposte. Purtroppo, non so che cosa voglia sentirsi dire. La corvina scuote la testa con veemenza. Qualsiasi cosa provi, si sta sforzando di gestirla. Un sospiro secco precede il suo intervento.

«Come fai ad essere viva?»

La domanda scortese è molto ingentilita dal suo tono dolce, ma anche disperato, avido di ottenere informazioni e placare i suoi dubbi interiori. Di sicuro il mio fare accigliato non può soddisfarla.

«Sono uscita dal coma. Non capita a tutti, mi ritengo fortunata, ma...»

Interrompo il mio discorso quando lei scuote ancora la testa. Si alza di scatto e svanisce nel corridoio. Quando torna, versa un goccio di acqua in un bicchiere. Noto che ingurgita una pillola, ma questo non sembra aiutarla. Per qualche secondo vengo proiettata anni nel passato.

Stessa scena, stessa casa. Lei stringeva il lavandino, io le stavo accanto e l'accarezzavo gentilmente, notando l'effetto positivo di questo gesto sui suoi muscoli, che si rilassavano a poco a poco.

Mi manca quel tocco, sentirla sotto le mie mani.

Sbatto appena le palpebre per allontanare i ricordi ed evitare di confonderli con il presente. Questa volta non mi avvicino a lei. Questa volta la mia mano non scorre con calma lungo la sua schiena, in un lento su e giù che attraversa la sua spina dorsale. Le mie labbra non si posano sulla sua spalla, la tensione non fa che rinforzarsi nel suo corpo.

«Ho gli allenamenti di boxe.»

La sua voce è controllata, fuori posto rispetto al suo aspetto.

«Fai ancora quella roba?»

Me lo lascio sfuggire. Chiara sa, o almeno spero lo ricordi, che non sopporto la violenza e allo stesso modo non ho mai digerito che lei ci si gettasse così a capofitto. Tuttavia, non ho mai criticato le sue scelte purché la rendessero soddisfatta.

Chi ci sarà a prendersi cura di tutte quelle ferite dopo? So che continui a non usarli i guantoni. Le vedo quelle nocche distrutte. C'è qualcuno a prendersi cura di te ora? Lei lo faceva?

Il mezzo sorriso che mi rivolge è stanco, abbozzato e svanisce quasi subito. Solo la sua ombra resta immobile sul volto di Chiara.

«Possiamo... Non importa» si zittisce da sola. Dalla sua espressione, sembra che nella sua testa si stia insultando da sola per una stupidità che però non le appartiene.

«Va bene. Io lavoro nel bar di fronte all'università, il plesso di facoltà è abbastanza vicino a quello di Rose.»

Chiara stringe i denti a sentire quel nome, ma scuote piano la testa, tra sé e sé. A questa di domanda silenziosa, non rispondo. Anche volessi, non ne sarei nemmeno davvero in grado.

Mi fa strada fino alla porta e scendiamo le scale assieme. Appena siamo fuori dal portone, la sua mano decisa afferra il mio polso per qualche istante. Abbastanza a lungo perché io mi giri a guardarla e veda quell'espressione sul suo volto. Quella che fa sempre quando vuole dirmi che ha paura di perdermi.

Faceva.

Una correzione dolorosa, ma che mi costringo a tenere presente nella mia mente.

Freme dal bisogno dirmi qualcosa, ma il silenzio sta lacerando i timpani di entrambe.

«Ti amo.»

Per quanto la sua voce sia bassa, non posso nemmeno dubitare di aver sentito correttamente. Lascia andare il mio polso, ma non si muove. Attende. Attende qualcosa che non arriva. Annuisce appena.

«Scusa.»

Mi lascia un bacio veloce sulla guancia, bagnato del dolore che le si potrebbe facilmente leggere negli occhi; dopodiché mi dà le spalle. Io faccio lo stesso, muovendomi in direzione opposta alla sua, senza proferire verbo. Di sottofondo sento il rumore del motore di una moto, cui il mio corpo reagisce con un'adrenalina che non dovrebbe essermi tanto familiare. La mia pelle ancora brucia. Il mio cervello è un turbine di pensieri arruffati, più confusi di quando ho deciso di venire qui. Lacrime calde mi rigano le guance mentre uno solo prevale fra tutti, qualcosa che Chiara mi disse molto, molto tempo fa.

"Lo so, è innegabile che io sia un mostro. Mi sono innamorata di te e per questo ti devo chiedere scusa. E questa è la maggiore prova della mia disumanità. Nessuna persona dovrebbe mai sentire la necessità di scusarsi per il semplice atto di amare".

I Frutti dell'IgnotoWhere stories live. Discover now