Capitolo 24 - Silenzi: il costume del caos

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Chiara

Osservo i suoi comportamenti quasi nevrotici; sembra che le mie parole le abbiano fatto accumulare più stress di quanto sarebbe razionalmente possibile.

Davvero l'idea di fare una cosa tanto semplice ti destabilizza? Oppure hai semplicemente bisogno che io creda che sia così?

«Possiamo anche rimandare se non vuoi. Staranno qui per un po'.»

Ho ceduto di nuovo, eh? Ho sempre creduto di essere, se non forte, almeno sufficientemente resistente per non farmi mettere sotto da chiunque volesse farlo. Eppure, Jane Craigh, andare contro le tue volontà sembra essere ancora più consumante di quanto non possa esserlo abbassare la testa.

Spero che le mie parole possano rassicurarla, o almeno rendere meno traumatica, ai suoi occhi, l'idea di affrontare ancora la sua famiglia. Credo sappia anche lei, dopotutto, di non poter fuggire da loro per sempre.

La cosa che non capisco, Jane, è se ti importi. Sei grande abbastanza da sapere che non si può sfuggire ai problemi, né gli si può girare attorno. Ma questo è abbastanza perché tu smetta di affannarti invano e prenda la decisione di affrontali?

Si avvicina di più a me, forse cercando nel calore del mio corpo il conforto di cui necessita. O forse, suggerisce una parte del mio cervello, per convincermi di quella che sembra essere una messa in scena.

«Per ora non mi va, Chiara» ammette, rifuggendo il mio sguardo. Un bel pugno nello stomaco, non lo nego, non a me stessa. «Possiamo aspettare la prossima volta?» chiede, sembra sentirsi in colpa anche solo per averlo proposto.

«Va bene, Jane. La prossima volta.»

Io stessa mi sento stupida e incoerente, ma la triste verità è che questo è molto più di quanto io abbia mai ottenuto da lei, voglio che sappia che apprezzo il suo sforzo. In qualche modo, deve essere difficile per lei anche solo mettere in conto di affrontarli, sebbene a distanza di mesi da oggi. Certo, una volta giunto il momento potrebbe anche retrocedere, ma voglio darle fiducia.

Lo farai, Jane? Farai di me un'idiota che pende dalle tue labbra? Vuoi solo che la smetta di insistere per un po'? Spero di no. Spero che se così fosse me lo diresti. Spero che avresti almeno il coraggio, il rispetto di lasciarmi. Come, d'altro canto, io vorrei che tu facessi.

«Grazie» bisbiglia, avvicinandosi a me e lasciandomi un bacio sul collo. I miei muscoli si irrigidiscono nel timore che continui.

Jane.

Provo a dire qualcosa con tutte le mie forze, ma le parole mi tradiscono rifiutandosi di risuonare nella stanza, le mie corde vocali sfuggono al comando del cervello mentre la ragazza continua a lasciare una scia sulla mia pelle che mi dà la stessa sensazione che farebbe la bava di una lumaca appena uscita dal fango. Il suo tocco è delicato, ma io non riesco ad accettarlo né a volerlo.

Voglio che ti fermi, Jane.

Non può sentirmi. Nessuno, meno che qualcuno in grado di leggere la mente, potrebbe. Solo un lieve sospiro si degna di eseguire i miei ordini. Non riesco nemmeno ad allontanarmi da lei mentre il mio battito accelera. Combatto contro quell'innaturale paralisi, con tutta la forza e l'energia che possiedo, solo per fermare le sue mani che, irrefrenabili, si spostano verso le parti più sensibili del mio corpo.

«J-Jane, ti prego» balbetto a fatica. Non sono il tipo da suppliche, ma è il massimo che riesca a pronunciare per ora.

Il respiro della bionda si infrange contro la mia pelle, prima che le sue labbra tornino all'attacco.

«N-Non voglio» riesco finalmente a dire. «Jane, non voglio, basta.»

Il mio tono si è fatto duro, lei sembra risentita quando i suoi occhi incontrano i miei. Sembra ferita, delusa. Cerca nel mio sguardo come delle spiegazioni di fronte a quello che il suo sembra considerare una sorta di tradimento o attacco ingiustificato.

«Non voglio farti nulla, Chiara. Ne abbiamo parlato.»

La sua voce, cauta in un tentativo di essere rassicurante, non mi convince, né mi calma. Credo che Jane lo noti, perché con molta cautela si avvicina di nuovo a me, forse per farmi una carezza. Mi ritraggo, ponendo circa mezzo metro fra di noi.

«Voglio andare da Alissa» sbotto, utilizzando un tono più alto di quello che la situazione richiederebbe. La fermezza delle mie parole non ammette repliche, quindi Jane non parla, ma le sue lacrime lo fanno per lei. Cercando di rassicurarla, mi accosto al suo fianco con cautela. Al suo primo movimento mi immobilizzo, poi mi riprendo e le stringo appena la spalla. Questo è il massimo contatto fisico che io riuscirei mai ad avere con chiunque, soprattutto con lei in questo momento, e mi costa più energie di quante io realmente ne abbia in corpo.

Io non parlo, lei non parla. L'appartamento si riempie dei miei passi rapidi e del suono della serratura, prima che io possa sfuggire da quel posto che al momento sento troppo stretto.

Lo skateboard mi porta velocemente da Alissa, certo per quanto possibile, e io busso alla sua porta, forse un poco troppo forte. Il battente si apre, io sguscio dentro. Gioco con le mie stesse dita, senza riuscire a guardarla.

«Pensavo fossi a casa con Jane.»

L'aria ora è permea della sua confusione, che lotta per il dominio con la mia ansia. Annuisco piano, guardando la corvina negli occhi. Non riesco realmente a fare nulla se non torturare le mie stesse mani. Sono certa di essere riuscita a farmi sanguinare, eppure non riesco a fermarmi, né a volerlo.

«Di nuovo?» domanda, ma io scuoto la testa.

«Dice che non voleva fare niente, però non è quello che mi è sembrato.»

Lei annuisce e mi fa cenno di seguirla in sala da pranzo, dove trovo anche i suoi genitori seduti a tavola. Il clima di quello che è stato per me un vero porto sicuro negli ultimi anni riesce a farmi sentire immediatamente meglio.

«Chiara! Da quanto tempo!» esclama la madre, gioiosa.

«Da un paio di giorni» ribatto scherzosamente. La sua famiglia ha sempre saputo come farmi sentire a casa e invadermi di buon umore. Alissa posa la sua mano sulla mia al di sopra della tovaglia.

«Resta qui per un po', anche per qualche giorno se vuoi, non devi rientrare per forza.»

I suoi ci guardano, ma non fanno domande. Non mi hanno mai forzata a dire più di quello che ritenessi necessario, facendo sempre quasi finta di non notare gli sguardi d'intesa e i dialoghi brevi e pieni di sott'intesi fra me e loro figlia. Sorrido, ricambiando le loro espressioni rassicuranti.

Finisce sempre così, vero Al? Io, te, i tuoi e una tavola imbandita. I silenzi leggeri e i pensieri pesanti sotto essi nascosti, lasciati in disparte, nel tentativo di ricercare la pace per cui tutti noi tanto annaspiamo in un mondo caotico quanto un mare in piena.

I Frutti dell'IgnotoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora