67. COLPA

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I piedi di Harry toccarono il suolo; fletté le ginocchia e la testa dorata del mago cadde rumorosamente sul pavimento. I ritratti dei Presidi dormicchiavano nelle cornici, la testa appoggiata allo schienale della poltrona o contro il bordo del quadro. Harry guardò fuori dalla finestra. All'orizzonte era comparsa una fresca linea verde pallido: l'alba si avvicinava.

Non riusciva a sopportare quella quiete, turbata solo dai rari borbottii o dagli sbuffi di un ritratto addormentato. Se la stanza avesse potuto riflettere le sue emozioni, i quadri avrebbero urlato di dolore. Andò avanti e indietro nell'ufficio silenzioso, respirando affannosamente, sforzandosi di non pensare. Ma doveva pensare... non c'era scampo...

Tiger era morto per colpa sua, soltanto per colpa sua. Se non fosse stato così idiota da abboccare all'esca lanciatagli da Voldemort, così convinto che i suoi sogni mostrassero la realtà, se solo avesse dato retta a Hermione...

Era insopportabile, non riusciva a pensarci, non poteva... avvertiva dentro di sé un vuoto tremendo che si rifiutava di riconoscere o di esaminare, un buco nero che gli stava scavando il petto.

Fiamme smeraldine esplosero nel camino vuoto. Harry si allontanò con un balzo dalla porta e fissò l'uomo che roteava là dentro. L'alta figura di Silente uscì dal fuoco,

senza guardare Harry, si tolse di tasca la piccola, brutta, spennacchiata Fanny e la posò con dolcezza sullo strato di soffici ceneri sotto il trespolo dorato sul quale di solito si appollaiava da adulta.

Harry fissò il tappeto, che stava diventando più chiaro via via che il cielo impallidiva.

«So quello che provi, Harry» disse pacato Silente.

«No che non lo sa». La voce di Harry esplose nella stanza, mentre una collera rovente lo invadeva; Silente non sapeva nulla di quello che provava.

Harry gli voltò la schiena e guardò fuori dalla finestra. In lontananza vide lo stadio di Quidditch. Tiger era un ottimo battitore, gli aveva salvato il collo più di una volta. Non lo aveva mai ringraziato.

«Non devi vergognarti di quello che provi» riprese Silente. «Anzi... poter provare un dolore così grande è la tua vera forza».

Harry sentì la collera lambirgli le viscere, fiammeggiando nel vuoto terribile, riempiendolo del desiderio di ferire Silente, di punirlo per la sua calma e per le sue parole vuote.

«La mia vera forza?» disse con voce tremante, fissando senza vederlo lo stadio di Quidditch. «Lei non ha idea... lei non sa...»

«Che cos'è che non so?» chiese calmo Silente.

Era troppo. Harry si voltò, tremando di collera.

«Non voglio parlare di quello che provo!»

«Harry, soffrire così dimostra che sei un uomo! Questo dolore fa parte dell'essere umano...»

«ALLORA... NON... VOGLIO... ESSERE... UMANO!» ruggì Harry.

Afferrò un delicato strumento argenteo dall'esile tavolino accanto a lui e lo scaraventò dall'altra parte della stanza; si fracassò in mille pezzi contro la parete. Parecchi ritratti lanciarono grida di collera e di spavento e quello di

Armando Dippet esclamò: «Insomma!»

«NON M'IMPORTA!» gridò loro Harry, afferrando un Lunascopio e lanciandolo nel camino. «NE HO ABBASTANZA, HO VISTO ABBASTANZA, VOGLIO USCIRNE, VOGLIO CHE FINISCA, NON M'IMPORTA PIÙ... »

Sollevò di peso il tavolino e lo scaraventò sul pavimento; le gambe sottili si spaccarono e rotolarono ciascuna in una direzione diversa.

«Sì che t'importa» disse Silente. Non era trasalito, né aveva fatto un solo gesto per impedirgli di demolire l'ufficio. La sua espressione era serena, quasi distaccata. «T'importa al punto che ti sembra di dissanguarti dal do-

Se fossi stato un SERPEVERDEWhere stories live. Discover now