15. Ultima necat

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«Mamma, mamma

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«Mamma, mamma... che succede?»

Aprii gli occhi di scatto ed ispirai quanta aria più possibile come se fossi stata sommersa per più di un minuto nell'acqua. Mi guardai subito attorno, cercando di capire dove mi trovassi. La stanza non l'avevo mai vista, ma era in penombra e sembrava pulita.

Che cazzo di posto era quello?

L'ambente era molto spoglio e quasi asettico, ma quando misi meglio a fuoco ciò che mi circondava, sbarrai gli occhi. Non c'erano mobili, ma solo dei pannelli appoggiati alle mura, ai quali erano appesi quelli che sembravano attrezzi.

Un sospetto mi si insinuò sotto pelle e iniziai a capire che forse quella non era proprio uno stanzino degli attrezzi da lavoro.

Il cuore palpitò in modo così forte che dovetti fare altri respiri profondi per provare a calmarmi e strinsi i pugni per canalizzare tutto l'avvilimento e la paura che stavo provando in quel momento. Ma appena provai a muovermi, mi accorsi di esser bloccata.

«Perché ci hanno legate, mamma?»

Avevo i polsi stretti da due lacci di pelle che avevano le chiusure di una cinta e mi impedivano ovviamente di muoverli. Ero bloccata su una sedia proprio al centro della stanza.

Feci dei respiri profondi per calmarmi. Inspira ed espira. Inspira ed espira.

Avevo ancora la mente annebbiata, ma piano piano iniziai a ricordare quello che era successo prima che arrivassi lì. Si susseguirono nella mia mente come flash di una vecchia fotocamera che accecava gli occhi. C'ero io che facevo arrestare Jackson, mi perdevo per qualche momento tra le strade di Wealthill, la porta della mia camera, Jackson che mi bloccava su di essa e che mi sussurrava all'orecchio una frase che somigliava molto ad una minaccia.

Scossi la testa prima di impedire ad altri pensieri di infestare quelli che avevo in quel momento, ma fu troppo tardi.

«Stai zitta, puttana!» Una mano fendette l'aria e mi arrivò proprio sulla guancia, provocandomi un dolore sordo, visto che mi colpì anche all'altezza dell'orecchio.

Lacrime bollenti rigarono il mio viso. «Mamma, voglio andare a casa», dissi in un sussurro, vedendo che lei veniva imbavagliata e legata al muro. Sembrava molto simile al santino che aveva appeso sempre al collo, con le braccia aperte e il viso basso, ma lei in quella posizione non mi confortò neanche un po'.

Gemetti provando a liberarmi, ma non feci altro che farmi male ulteriormente ai polsi, facendo arrossare ancora di più la pelle attorno i lacci.

Chi mi aveva messo lì?

Jackson non poteva avermi rapita, richiusa, legata in quella stanza con quegli attrezzi così inquietanti e lasciata lì sola. Non era da lui. Non era lui. Non potevo crederci che quella che avevo considerato come la persona di cui mi fidavo di più al mondo, potesse avermi fatto una cosa del genere.

Beyond the surfaceWhere stories live. Discover now