22. Automa

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Jackson

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Jackson

Mi svegliai di soprassalto. Stavo sognando di cadere, una debolezza del mio subconscio che odiavo. Sembrava tutto così vero da farmi contrarre tutti i muscoli e grugnire dal dolore. Cercai di mettermi più comodo in quel letto decisamente scomodo, ma finii solo per peggiorare le cose.

Osservai la stanza, per quel che mi permise l'occhio gonfio. La luce si insinuava con prepotenza negli spazi che la tenda non riuscisse a coprire. Ero nella camera della signora Bradwell e mi sentii in colpa per avergliela occupata, sapendo benissimo che lei avrebbe dormito sul divano nel salone dei giochi.

Era strano per me dormire in una casa che non fosse la mia. Ero completamente indifeso lì, aggiungendo anche la condizione in cui mi trovassi. Il mio sonno era stato inquieto.

Mi sentivo uno schifo. Il polso era sicuramente slogato, mi ero già rotto qualche osso in passato e niente di tutto il dolore che provassi era paragonato alle volte in cui era successo, quindi una nota positiva c'era. Le botte che avevo preso però dovevano avermi lasciato parecchi lividi e contusioni, tant'è che non mi permisero neanche di muovermi normalmente. Poi c'erano i tagli, sentivo pulsare il sangue in ogni apertura della pelle, contro le garze intrise di disinfettante.

Ma lasciai da parte per un secondo la valutazione del mio corpo e in quel momento mi ricordai una cosa. Indirizzai velocemente lo sguardo verso il lato sinistro del letto matrimoniale, talmente basso da sembrare una brandina.

Una macchia argentea era adagiata sopra le coperte, i capelli biondi le coprivano interamente il viso e la pelliccia nera la teneva al caldo solo parzialmente. Il vestito color ardesia brillantinata ricopriva quasi tutto il letto, lasciando scoperte le sue lunghe gambe per lo spacco troppo profondo che avesse. L'abito le cadeva addosso come una nuvola, adattandosi alle sue curve ed evidenziandone ogni bellezza. Non aveva le scarpe, i piedi le fuoriuscivano dal letto di tanto e solo allora notai quanto fosse in basso e lontana da me.

Continuai a fissare le sue curve. La vita stretta evidenziava il suo fondoschiena decisamente troppo pieno e tondo per passare inosservato e che in quel momento era messo in bella vista per il modo in cui si fosse sdraiata a pancia in giù. Le gambe lunghe avevano attirato il mio sguardo talmente tante di quelle volte che avevo perso il conto, immaginandole fastidiosamente attorno i miei fianchi.

La notte precedente avevo creduto fosse un sogno, insomma era impossibile che un angelo fosse piombato in camera mia e se non fosse stato per quelle labbra rosso fuoco avrei pensato davvero che lo fosse. Non sapevo se fosse venuto da me per aiutarmi o attirarmi nella sua trappola dalle sbarre dorate, ma non lo volevo in nessun altro posto.

Poi l'angelo aveva aperto bocca, il bel sogno era sfumato nella realtà e portava il nome di Megan. Si era arrabbiata con me e con la signora Bradwell perché ancora non avevamo chiamato un'ambulanza, avevamo litigato per non so quanto tempo e alla fine aveva deciso che avrebbe fatto qualcosa il giorno dopo. O meglio l'avevo costretta, facendola ragionare sul fatto che i medici dell'alta Wealthill non curassero quelli come me e che avrebbero fatto domande alle quali non avrei potuto rispondere.

Beyond the surfaceWhere stories live. Discover now