41. Perdersi...

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Megan

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Megan

Ci guardammo per un tempo interminabile, senza capire bene le nostre occhiate. Rubammo quegli attimi di silenzio, di stallo, come se ci trovassimo in quel momento di paralisi tra una scossa di terremoto e l'altra, aspettandola con il fiato sul collo.

Poi non riuscii più a rimanere lì, sotto il suo sguardo e in quella piccola stanza, con la verità che aleggiava tra quelle pareti e che rimbombava ancora nelle mie orecchie. Così andai nel suo salone, senza sapere cosa fare una volta lì.

I ricordi di quel giorno ormai avevano infestato la mia testa e non riuscivo più a scacciarli via. Era impossibile.

Lo sentii alle mie spalle e parlai prima che lui potesse iniziare subito a giudicarmi in qualche modo, visto che entrambi eravamo molto bravi a farlo e in quel caso sapevo anche che aveva tutte le ragioni.

«Posso chiederti un bicchiere d'acqua per favore?» Mi sentivo la gola secca e avevo bisogno ancora di qualche secondo per riprendermi.

Jackson si mosse senza parlare e andò ad aprire il suo frigo e poi la sua credenza. Mi porse il bicchiere senza guardarmi, o così credevo, dato che non avevo il coraggio di alzare lo sguardo.

Mi sentii per un momento ridicola con quel vestito troppo stretto e troppo scollato. Non mi stava poi neanche tanto bene e volevo solo infilarmi nel pigiama e coprire quel corpo che non piaceva a nessuno. Che mi faceva sentire strana agli occhi degli altri, ai miei occhi, e che doveva solo esser nascosto.

Andai a sedermi ad una di quelle sedie alte del bancone proprio di fronte i fornelli. Mi presi la testa tra le mani e sospirai. «So cosa starai pensando. Sono una persona orribile e probabilmente la tua considerazione di me è peggiorata ancor di più».

Quando avevo iniziato a preoccuparmi di cosa pensasse lui? Proprio non lo ricordavo, ma arrivati a quel punto volevo solo che mi guardasse con occhi diversi. Che non fosse più così minaccioso come all'inizio e che continuasse a regalarmi quei rari sorrisi che mi facevano battere il cuore.

Poi quel silenzio mi soffocò e non lo sopportai più. Perché non diceva niente? A quel punto andavano bene anche gli insulti, purché parlasse.

Così lo guardai negli occhi, adombrati dalla curva accigliata della sua fronte. Le sopracciglia nere come i capelli erano corrugate e le sue iridi verdi erano puntate su di me, mentre mi guardava dal suo metro e novanta e mi faceva sentire una bambina.

Ci studiammo un po' a vicenda, cercando di capire quale fosse il passo successivo. Il problema del suo viso era che sembrava scolpito nel ghiaccio con uno scalpello e non ammetteva emozione alcuna. Era snervante non sapere cosa gli passasse in quella testolina.

Sospirai. «Non lo sa nessuno questo... neanche lui». Da qualche parte dovevo pur cominciare.

Sapevo di dovergli una spiegazione. Insomma, non potevo di certo aspettarmi che dicesse "ah ok" alla frase che qualche momento prima gli avevo detto. Eppure non l'avevo messo in conto lo stesso. Avevo avuto il bisogno di sfogarmi, di dire ad anima viva quel che avevo fatto, ma spiegare tutto... era ancora difficile.

Beyond the surfaceWhere stories live. Discover now