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SEBASTIAN POV'

Rimasi basito sulla soglia di casa, a fissare la ragazza davanti a me, che con un'espressione indecifrabile si accarezzava il pancione da sopra la giacca. Sentivo il cuore martellarmi nel petto e un persistente senso di nausea scavarmi l'addome e rivoltarmi lo stomaco. Mi stupirei se a quelle parole la mascella non mi fosse caduta a terra per lo sgomento. Continuavo a riflettere su tutte le ragazze che avevo avuto, le contavo e ricontavo nella mia mente, sentendo il panico crescere. Un numero esorbitante di facce mi passavano davanti agli occhi mentre tentavo di ricordare se avessi mai visto il suo viso, cercandolo fra quello di tante altre. Brune, bionde, rosse, more. Eppure niente, non ricordavo di essere mai andato a letto con lei, ma anche se lo avessi fatto io usavo sempre il preservativo, sempre. Ubriaco o no, strafatto o no. Il preservativo non lo dimenticavo mai. Come avevo fatto a metterla incinta allora? Sentii i polmoni stretti nella cassa toracica, le gambe tremare. "Come posso essere il padre?" continuavo a chiedermi, e nel frattempo rimanevo impalato come un idiota, davanti a lei che non mi staccava gli occhi di dosso. Ma era un altro lo sguardo che mi preoccupava, in quel momento, ed era quello di Chiara, che sentivo bruciare sulla mia schiena come se mi stessero passando un accendino sulla pelle. Immaginavo già cosa potesse esserci nei suoi occhi. Immaginavo già la sua espressione. E io non volevo vedere tutto ciò, non di nuovo. Mi feci coraggio e mi voltai verso di lei, trovandola esattamente come me l'aspettavo. Il pallore della sua pelle era raccapricciante, il labbro inferiore stretto fra i denti sembrava sul punto di squarciarsi per quanta pressione vi esercitava sopra. I suoi occhi erano completamente offuscati dalle lacrime, ne scorrevano a centinaia sul suo viso, bagnandolo completamente. Non avrei mai pensato che ne potessero scendere tante. Il suo viso era una maschera di dolore, eppure riusciva a contenere i singhiozzi, che a fatica intrappolava nella sua gola. Sembrava sul punto di scoppiare, come una bomba ad orologeria che da un momento all'altro sarebbe esplosa. Ma non lo fece. Mi guardò negli occhi, con uno sguardo agghiacciante, potei sentire il dolore che la lacerava dentro, e provai una fitta lancinante al petto, mentre la sentivo allontanarsi da me. Ero convinto che quella sarebbe stata l'ultima volta che i suoi occhi avrebbero incontrato i miei. Raccolse da terra la sua borsa, caricandosela in spalla, e agguantò il suo cappotto appeso all'attaccapanni. Senza proferire un suono, mentre io restavo a guardarla immobile, uscì di casa a testa bassa e camminando rapidamente si avviò verso la sua. Avrei potuto seguirla, certo, ma non sarebbe servito a niente. Avevo bisogno di capire cosa stava succedendo prima di parlare con Chiara, o avrei rischiato solo di aggravare la situazione. Anche se in quel momento mi sembrava assurdo che le cose potessero avere un risvolto più negativo. Indietreggiai senza fiato e andai a sedermi sulle scale, prendendomi la testa fra le mani. "Io non sto per diventare padre", continuavo a ripetermi, "Io non ho messo incinta quella ragazza". Lo sentivo, sentivo che tutto si stava spezzando, andava a rotoli. Perché? Perché la mia vita era un costante "Mai 'na gioia"? Perché io e Chiara non potevamo viverci una relazione tranquilla? Perché faceva tutto così maledettamente schifo? Cos'avevo fatto di male per meritare tutta quella merda? Ero sul punto di scoppiare in lacrime, continuavo a negare a me stesso l'esistenza di quel bambino, eppure il pancione parlava da sé. Ero così maledettamente confuso, cazzo, ed ero arrabbiato con me stesso e con il mondo intero, senza una ragione precisa. Alzai la testa di scatto quando sentii la porta di casa chiudersi, e le folate d'aria fredda che fino a quel momento mi davano un minimo di sollievo da quella situazione, interrompersi. La ragazza con la frangetta era sempre lì che mi fissava, e il suo sguardo mi sembrava sempre più molesto ogni secondo che passava. Mi alzai in piedi e mi diressi verso il salotto, dove lei mi seguì a distanza di pochi passi. Avevo bisogno che mi spiegasse cos'era successo precisamente, perché ancora non realizzavo fino in fondo la storia. Dopo diversi minuti di silenzio, in cui mi agitai accanto a lei sul divano, senza darmi pace, mi decisi a parlare, ponendole la domanda che più mi spaventava. –Quindi questo è... - lasciai la frase in sospeso. Non riuscivo neanche a dirlo dannazione. Abbassò lo sguardo sul suo ventre e sorrise, per poi riportare lo sguardo nel mio. –Tuo figlio. – finì per me, accarezzando per l'ennesima volta il pancione. I suoi gesti davano l'impressione che volesse dimostrare di essere incinta, evidenziarlo, come se non fosse già abbastanza evidente, ed era alquanto snervante. –E sei... sei sicura che sia mio? Cioè... – balbettai cautamente, passandomi nervosamente le mani sui jeans. Speravo con tutto il cuore che ci fosse anche una minima possibilità che il figlio fosse di un altro ragazzo, che magari non ne fosse certa, ma considerando la fortuna che avevo era improbabile. –L'ultima volta che l'ho fatto è stato con te e rientra nei tempi. – confermò le mie paure. Eppure io ancora non mi ricordavo di lei. Come avevo fatto a rimuoverla completamente dalla mia testa? Le possibilità erano due. O ero ubriaco da far schifo, il che era molto probabile, o non eravamo mai stati a letto insieme, ma la seconda opzione era già più inverosimile. Che ragione avrebbe avuto di mentire su questo? Abbassai gli occhi sulla sua pancia sporgente e mi convinsi ancora di più che la seconda ipotesi fosse del tutto improbabile. Lì dentro stava crescendo quello che sarebbe stato mio figlio. Sembrava quasi assurdo a pensarci, ma stavo per diventare padre. Vedendo che la fissavo con insistenza, prese la mia mano e se l'appoggiò sull'addome, stranamente rigido. –Di quanti mesi sei? – chiesi a quel punto, riportando gli occhi nei suoi. Non meno di cinque, a prima vista. Sembrò felice del mio interesse a riguardo, perché mi sorrise. –26 settimane. – rispose, stringendo la mia mano ancora appoggiata sulla sua pancia. Iniziai a sentirmi a disagio in quella situazione, quindi tolsi la mano dalla sua e mi alzai in piedi, iniziando a vagare per la stanza. Per la successiva mezz'ora le feci alcune domande per conoscerla meglio. Le chiesi quanti anni avesse, se i suoi genitori sapessero del bambino, dove abitasse e svariate altre cose di poco conto. Avrei dovuto dirlo anche ai miei, pensai, ma scacciai l'idea in fretta, accantonandola in un angolo con mille altri pensieri. Venne fuori che aveva 24 anni, abitava sola in un appartamento un po' fuori città e che i suoi genitori non sapevano ancora niente del bambino, perché non erano in buoni rapporti già da qualche anno. Faceva la cameriera in un ristorante in cui la paga era discreta, ma non riusciva comunque a pagare l'affitto da sola e quindi aveva dovuto cercare una coinquilina. La cosa si faceva sempre più assurda. Chiara probabilmente non voleva più vedermi e io ero lì a chiacchierare tranquillamente con una perfetta sconosciuta, senza fare niente per tentare di salvare la nostra relazione. Quel bambino mi aveva letteralmente dato alla testa, tanto che ero arrivato alla conclusione che sarei andato a parlare con Chiara non appena fossi riuscito a liberarmi di Tamara e ad avere risposta ad un numero tale di domande che mi avrebbero portato ad ottenere un quadro completo della situazione, così da poter affrontare il discorso con lei e sistemare le cose. –Perché non mi hai cercato prima? – chiesi allora, dando voce ad un pensiero che mi girava in testa già da qualche minuto. La ragazza sospirò ed abbassò gli occhi sul tavolino in legno, posto davanti al divano. –All'inizio ero convinta di potercela fare anche da sola, ma poi mi sono resa conto che non è così. Ho bisogno di te per riuscirci. – disse, rialzando lo sguardo nel mio, e fui colto da un brivido per il tono con cui pronunciò quelle parole. Eppure percepivo che stava omettendo qualcosa. –E perché sei qui esattamente, solo per questo? – chiesi, assottigliando lo sguardo, come in cerca di una risposta nei suoi occhi. –In realtà no... - confermò i miei sospetti. –Quella sera non abbiamo fatto sesso solo perché eravamo ubriachi, almeno non io. Io penso... penso di essermi innamorata di te Sebastian, e vedo questo bambino come un'opportunità per noi di poter stare insieme. È... è destino, capisci? – I suoi occhi traboccanti di speranza mi fecero quasi commuovere, ma dovevo fermare quelle sue fantasie malsane sul nascere, prima che ne rimanesse troppo delusa. Non ci sarebbe mai stato nessun noi, nessun io e lei. Per quanto mi riguardava eravamo solo io e Chiara. –Per me non è destino, Tamara, per me è solo... un errore. – dissi, forse usando parole un po' troppo crude e schiette. Ma prima si rendeva conto del fatto che fra me e lei non ci sarebbe mai stato nessun rapporto all'infuori della semplice amicizia, tra l'altro forzata dal fatto che avessimo un figlio insieme, meglio era. Non volevo darle false speranze. Perché sinceramente, l'unica ragazza con cui avrei immaginato di avere un figlio, in un lontano futuro magari, in quel momento era scappata via piangendo e sentivo che ogni momento passato a perdere tempo con Tamara, Chiara si allontanava sempre di più, e non potevo permettermi di lasciarla andare via. –Mi dispiace tanto, ma io sono innamorato di un'altra ragazza. Ti aiuterò con il bambino, ma non starò con te. – dissi, facendo cenno di diniego nella sua direzione. E in quel momento, giunto al termine della discussione con quella ragazza, non potei fare a meno di chiedermi un'ultima cosa: io e Chiara stavamo ancora insieme?

"Come aeroplanini di carta"Nơi câu chuyện tồn tại. Hãy khám phá bây giờ