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Ci imbarcarono in aereo, per tornare a casa. La settimana era passata tranquillamente, anche il programma delle visite non era stato troppo pesante. I primi tre giorni li passammo a vistare tre musei diversi, impiegandoci una giornata per ognuno, tra cui: Mercoledì, il Rijksmuseum, il più grande d'Olanda; Giovedì, lo Stedelijk Museum, quello di arte moderna e contemporanea; e infine Venerdì, per concludere la nostra visita ai musei, il Van Gogh Museum, a mio parere il più bello. Sabato dividemmo la giornata in due parti, La mattina ci recammo a piazza Dam, in cui ammirammo il Palazzo Reale e la Chiesa nuova, e la sera andammo a Leidseplein, il centro della vita notturna della città. L'area attorno a quella piazza pullulava di café, pub, club e coffeeshops, oltre ad hotel e ristoranti di ogni genere, per non parlare dei musicisti e degli artisti di strada, di cui le strade erano affollatissime. Infine, la mattina di quella Domenica, l'ultimo giorno, ci recammo per qualche ora al Vondelpark, per una breve visita, prima di tornare all'Hotel, pranzare rapidamente e dirigerci all'aeroporto. Ad un certo punto della settimana, anche condividere la stanza e dormire con Sebastian mi pesava sempre meno. Avevamo una routine prestabilita, senza neanche accorgercene, e ci eravamo abituati a vederci appena svegli e prima di dormire. Non si poteva dire che il dialogo fosse peggiorato, anzi, continuavamo a bisticciare per chi doveva usare il bagno per primo, ma erano più le volte in cui finivamo per ridere alle battute dell'altro, che quelle in cui ci prendevamo a cucinate e litigavamo. Quel giorno mi sarei aspettata di sedermi vicino ad Eva, sull'aereo, ma avevo dimenticato che Tom le aveva chiesto di diventare la sua ragazza, e che quindi probabilmente si sarebbe seduta accanto a lui. In quei sette giorni ci eravamo parlate sì e no una decina di volte. Tra cui una in aereo, prima di arrivare, e le altre nove quando era corsa da me a raccontarmi tutti i dettagli di come le aveva chiesto di stare con lui, partendo dal ballo a cui avevano partecipato quella sera, al vestito che indossavano, al parco in cui le aveva fatto la proposta e al discorso che le aveva fatto, il tutto disseminato in svariati discorsetti nel corso della settimana, dopo i quali spariva sempre per ore e nessuno la vedeva più. Non che la loro relazione mi infastidisse, affatto, quello che mi urtava era che a causa di quella si fosse praticamente dimenticata della mia esistenza. Mi sedetti sul primo sedile libero che trovai, non preoccupandomi delle ragazze delle altre sezioni accanto a me che non appena mi sedetti iniziarono a fissarmi, cercando forse di capire perché mi fossi seduta accanto a loro. Sui sedili dietro al mio c'erano Eva e Tom, accoccolati, e davanti Luca e Sebastian che, erano appena saliti, e già russavano. Misi le cuffiette e la riproduzione casuale fece partire "Secret" degli One Republic, e piano piano mi addormentai.

***

–Chiara, sveglia. – La voce di Eva da flebile e lontana si fece sempre più nitida e chiara, portandomi a svegliarmi completamente. –Delicatezza unica... come sempre. – sbottai, con la bocca impastata, stropicciandomi gli occhi e stiracchiandomi. –Che hai? – mi chiese, probabilmente stranita dal mio tono ostile. Se magari all'apparenza riuscivo a fingere che il fatto che per tutta la settimana mi avesse ignorata non mi avesse infastidita, trovandomela faccia a faccia, e vedendo come lei non si fosse accorta di niente, no. –Niente, considerando che mi hai letteralmente rimpiazzato con Tom. – le lanciai un occhiataccia, con finta indifferenza e una velata acidità, alzandomi dal sedile per stiracchiarmi meglio. Il fatto che i sedili dell'aereo fossero così scomodi non contribuivano per niente a migliorare il mio umore, anzi. Quando provai a superarla e scendere dal mezzo, da cui stavano uscendo le ultime persone, mi si parò davanti, bloccandomi l'uscita. La guardai aggrottando le sopracciglia, confusa del suo gesto. –Scusa. – disse dispiaciuta, abbassando lo sguardo. Sospirai, combattuta. Infondo non potevo fargliene una colpa. Amava un ragazzo e voleva passare del tempo con lui, avrebbe potuto passare qualche minuto al giorno in più con me, ma non aveva poi tutti i torti a voler stare con lui, probabilmente l'avrei fatto anche io. –Sei una stronza egocentrica del cazzo. Ma ti voglio bene. – Le circondai il busto con le braccia e la strinsi a me. In un primo momento si irrigidì, forse sorpresa dal mio rapido cambiamento d'umore e d'opinione, ma dopo pochi secondi mi circondò la vita, ricambiando l'abbraccio. –Egocentrica? – ridacchiò, appoggiando la testa sulla mia spalla. –Egocentrica. – risi anch'io. –Scusate se vi interrompo, ma dovremmo imbarcare gli altri passeggeri, dovreste scendere. – ci disse cordialmente l'hostess, tentando di mascherare un tono abbastanza teso e infastidito. Restammo qualche secondo a fissarla, dovendo assimilare le informazioni, con gli occhi sbarrati. –Si, ci scusi. – disse Eva, riscuotendo sia me che lei dal tran e staccandosi per prima dall'abbraccio. La donna ci sorrise, arricciando il naso per il fastidio, e tornò da una sua collega. Che donna insopportabile. Pensai. Eva sembrò pensarla come me, visto che appena la donna si fu girata per andarsene riprodusse la sua stessa smorfia, camminando come una papera. Ridacchiai e la seguii all'esterno dell'aereo, mentre ancora imitava la camminata e la voce dell'hostess. Fortunatamente rintracciammo subito gli altri ragazzi, raccolti in un folto gruppo accanto al nastro trasportatore, su cui scorrevano le nostre valigie, uscite direttamente dalla stiva. Ci avvicinammo e prendemmo le nostre, per poi seguire gli insegnanti, giusto in tempo per l'appello. –Sembra felice la Rizzo. Dici che si è data da fare con quello di Fisica? – mi sussurrò Eva, all'orecchio, mentre osservavamo la professoressa trotterellare a casa, una volta che tutti noi studenti ci disperdemmo per tornarcene a casa. La sola idea del professore di fisica che amoreggiava con la professoressa di matematica mi faceva venire i brividi. –Mio dio, non mettermi in testa certe immagini, ti prego. – sussurrai a mia volta, ridacchiando disgustata. Rise e mi colpì la spalla con la sua, scherzosamente. –Ci porta a casa tua madre, giusto? – mi chiese, cambiando discorso. –Si, andiamo. – Uscimmo dalle grandi porte automatiche dell'aeroporto, guardandoci in torno, e mia madre era esattamente lì davanti, in compagnia del mio ormai ex compagno di stanza. Li vidi scambiare qualche chiacchiera serenamente, prima che Sebastian si sporgesse a lasciarle un bacio sulla guancia e se ne andasse. Aggrottai le sopracciglia, confusa. L'ultima volta che li avevo visti parlare avevo tredici anni, non pensavo avessero un rapporto così stretto dopo tutti quegli anni, ma dovevo aspettarmelo, visto che Sebastian aveva uno strano fascino magnetico, che, unito al suo innato carisma, lo avrebbe portato facilmente a riallacciare i rapporti persi con chiunque, o comunque grazie al suo carattere alla mano a scambiare quattro chiacchiere senza imbarazzo. –Però, Sebastian ci prova anche con tua madre. – mi stuzzicò Eva, ridacchiando. Alzai gli occhi al cielo e sbuffai, ignorandola. Non appena mia madre mi vide le si illuminò il viso e vi comparve un ampissimo sorriso, che mi venne spontaneo ricambiare. –Mi fai sempre fare delle figure di merda. – dissi, abbracciandola. Ci avrei scommesso il culo che fosse stata lei a iniziare la conversazione, e Sebastian non aveva di sicuro avuto problemi a portarla avanti. –Fa piacere anche a me vederti tesoro. – disse sarcastica, stringendomi affettuosamente. –Andiamo? – comparse Eva alle nostre spalle, probabilmente ansiosa di tornare a casa a salutare i suoi genitori. –Si, certo. – annuì mia madre, conducendoci all'auto. Caricammo tutto nel bagagliaio e portammo a casa Eva, che senza troppi giri di parole scese dall'auto, semplicemente strillando un saluto veloce a mia madre e dicendomi che mi avrebbe chiamata più tardi. Ridacchiai e rinunciai a provare a capirla, quella ragazza era impossibile. Mi sporsi oltre i due sedili anteriori, con la testa, e osservai la divisa da infermiera di mia madre. –Fra poco hai il turno? – chiesi, ricevendo in riposta un sì, mentre metteva in moto l'auto. –Mi daresti uno strappo all'ospedale? Vorrei vedere Adam. – chiesi, sentendo l'ansia concentrarsi tutta sul mio stomaco annodato. Sapevo non ci fossero stati cambiamenti, in tal caso i suoi genitori mi avrebbero chiamata, ma avevo davvero bisogno di vederlo dopo una settimana e mezzo lontana da lui. –Va bene. – acconsentì, e dopo poco più di venti minuti fummo in ospedale. All'entrata dell'edificio ci dividemmo, lei andò verso destra, mentre io andai dritta, prendendo l'ascensore fino al terzo piano. Superai la sala d'attesa, deserta, probabilmente i suoi genitori erano tornati a casa per qualche ora, e attraversai il corridoio, fermandomi davanti la porta della sua stanza. Indugiai un secondo sulla maniglia, ma scacciai ogni pensiero e varcai la soglia ed entrai. –Adam. – Sbattei più volte le ciglia e spalancai la bocca, incredula. Una miriade di emozioni si susseguirono nel mio petto. Sconcerto, confusione, incredulità, sollievo, ansia, emozione, felicità. Tutto insieme e in pochi secondi, rischiando di farmi esplodere il cuore. –Ei. – disse, con un filo di voce e gli occhi socchiusi, la gola probabilmente secca. –Mio dio, sei sveglio finalmente. – Mi coprii la bocca, sentendo gli occhi pizzicare e le guance bagnarsi di lacrime. A passo svelto andai verso di lui e lo abbracciai, sentendo il familiare solletico dei suoi ricci sul viso, la pelle ancora un po' troppo fresca, ma comunque piacevole. Con molta fatica ricambiò il mio abbraccio, stringendomi flebilmente, ma ne assaporai ogni secondo. Per qualche minuto restammo così, io in lacrime stringendolo forte, mentre lui non aveva le forze per portare avanti il suo abbraccio e dopo pochi secondi l'aveva sciolto. –Da quanto tempo sono in coma? – chiese, quando, dopo qualche minuto, mi ripresi e mi staccai da lui. Portò una mano al petto, facendo una faccia strana, ma in quel momento non ci diedi peso, troppo felice che si fosse svegliato. –Un lunghissimo mese. Non sai cosa ti sei perso... - iniziai a dire, ma mi interruppe quasi subito. –Non mi sento bene, Chiara non... - si bloccò, non riuscendo più a respirare. I suoi occhi si rivolsero verso l'alto, mentre veniva colto da improvvise convulsioni, il corpo scosso da queste fortissime scosse che lo facevano tremare da testa a piedi. Sbarrai gli occhi mentre il cuore mi sprofondava nel petto, improvvisamente colta dall'ansia e dal terrore. Il monitor iniziò a fischiare velocemente e la pressione si abbassò in un secondo. Un gruppo di infermiere e un medico entrarono con il carrellino per la rianimazione. –Codice blu, è in arresto. – disse una di loro rivolta alla collega. Io rimasi immobile a fissarli, senza fiato, mentre il mio petto si svuotava, la cassa toracica si restringeva e la stanza vorticava attorno a me, che non sentivo più la terra sotto i piedi. –Piastre, carica a duecento. – urlò sempre la stessa infermiera. -1, 2, 3 libera. – disse e diedero una scossa al cuore di Adam, il quale corpo sussultò. Osservò il monitor, ma nulla era cambiato. -Carica a trecento. 1, 2, 3 libera... – Solo allora, vedendo la linea del battito cardiaco restare piatta, iniziai a reagire, realizzando cosa stava accadendo. Realizzando che la sua vita si stava spegnendo, la sua anima si stava staccando dal suo corpo. E sapevo che sarebbe andato in un posto migliore, ma l'egoismo che provai in quel momento mi spinse ad aggrapparmi ad ogni speranza pur di tenerlo con me un secondo in più, pur di non lasciare che se ne andasse. –Adam no! Salvatelo vi prego. Adam svegliati. Non mi lasciare. Non puoi morire. Adam, andiamo, ti prego svegliati. Ti prego, non lasciarmi. – urlai, in preda alla disperazione. Solo in quel momento si accorsero della mia presenza nella stanza. –Lei non può stare qui signorina, venga con me. – mi disse un'infermiera, il tono comprensivo, gli occhi che tanto avevano visto la morte, ma mai tanto tristi quanto i miei, che la vedevo per la prima volta e già mi stava portando via tanto. Tentò in tutti i modi di spingermi fuori, ma non potevo, non potevo lasciare Adam, non potevo permettere che se ne andasse. Il monitor emise un bip lunghissimo e mi bloccai, come il cuore del mio amico. In quel momento mi sentii svuotare. Un vuoto talmente desolato da essere raccapricciante. Persino il dolore sarebbe stato più sopportabile. Ma in quel momento provai la spaventosa sensazione di aver perso qualcosa di davvero importante, sotto i propri occhi, e di non aver potuto fare niente, ma comunque non aver sentito assolutamente niente. Ed era lacerante, quasi quanto l'improvviso dolore che vi susseguì e che squarciò il mio petto in due. Il suo corpo su quel letto, privo di vita, e la sua anima invisibile che gridava prendimi, un prendimi inudibile, sordo, pronunciato, ma detto da nessuno. –Ora del decesso 19:43. – esordì il medico, con voce rassegnata e triste, posando le piastre del defibrillatore. A quelle parole mi cadde il mondo addosso, definitivamente. –No, no. Non può essere vero. Non può essere vero. – urlai disperata, prendendomi la testa fra le mani, rifiutando tutto quello. Corsi dal ragazzo, buttandomici sopra. Appoggiai la testa sul suo petto, nudo perché avevano appena provato a rianimarlo, e iniziai a piangere, come non avevo mai fatto in vita mia. –Avevi promesso. Avevi promesso che non mi avresti mai lasciata. – sussurrai. Appoggiai l'orecchio sul suo petto e nel gesto più autolesionista che avessi mai compiuto cercai il suo battito, ma dentro di lui c'era il vuoto. Si erano portati via tutto quello che lo rendeva umano, lasciando il nulla, solo un guscio vuoto come dolorosa testimonianza del fatto che l'avessimo perso per sempre. Un singhiozzo vibrò fra le mia labbra, lasciandole, e si imbatté sul suo petto nudo. –Andiamo signorina. Mi dispiace per il suo amico. Ora dobbiamo portarlo via. – sussurrò l'infermiera e mi alzò di peso, allontanandomi da quel guscio vuoto, che nonostante non contenesse niente, fosse effettivamente l'unica cosa di lui che mi restava, che mi diceva che era esistito davvero, che non ero pazza, che la pazzia era vivere. Osservai un'altra infermiera coprirgli il viso con il lenzuolo e un altro singhiozzo lasciò le mie labbra, più rumoroso del precedente. Nel corridoio si udì il rimbombo delle scarpe, persone che correvano. Sapevo chi fossero, ma non volevo ammetterlo. Speravo che almeno loro si sarebbero risparmiati quella scena orribile, speravo che non facessero in tempo a vedere loro figlio sul letto di morte, ma non fu così. Appena videro il suo corpo, coperto completamente, mentre le infermiere lo portavano fuori dalla stanza, si lasciarono andare in un pianto disperato quanto il mio, e sentii tutti i lacci che ancora li tenevano insieme spezzarsi, la speranza dissolversi e quel nauseante vuoto così leggibile nei loro occhi. –Non il mio bambino. – urlò sua madre, con un mano sulla bocca per coprire i singhiozzi, soffocare i suoi sentimenti. Un urlo così straziante, un urlo che in quel momento mi sembrò ai limiti dell'umano, raccapricciante. Tirava fuori un qualcosa dell'animo umano, qualcosa di sepolto, nascosto agli occhi, che potevi solo sentire, non vedere. E i suoi occhi forse erano la cosa peggiore, sbarrati, bagnati dalle lacrime, mentre vedevano strapparsi via il sangue del proprio sangue, senza poterlo impedire, mentre provavano il dolore della vita. Vivere quel momento era il vero dolore. –Mi dispiace tanto. – sussurrai, mentre le lacrime rigavano il mio viso. Non avevo mai sentito un dolore così lacerante, così insopportabile. Mai. Il momento peggiore fu quando incrociai gli occhi della madre, tormentati dall'ostinazione. Non si rassegnava. E sinceramente pensai che fosse ancora più triste della resa. La speranza vana che tutto quello non fosse accaduto, così astratta e insensata. Così frivola. Il medico, dopo averci lasciato qualche minuto per calmarci si avvicinò. –Capita che i pazienti si sveglino dal coma appena prima di morire. Si chiama recupero fittizio. Ad alcune persone va meglio e dura di più. In questo caso è durato davvero troppo poco. Non è un fatto raro. – spiegò, rifiutandosi di guardare negli occhi i genitori. Sospirò e si tolse gli occhiai, alzando finalmente gli occhi su di noi. –Abbiamo davvero fatto tutto il possibile per non lasciarlo andare, mi dispiace moltissimo. – continuò, guardandoci con compassione. Serrò la mascella, quando alla madre di Adam scappò un altro singhiozzo e si rifugiò nel petto del marito. Rimise gli occhiali, sospirando, e se ne andò, lasciandoci al nostro dolore, lasciandoci annegare nello sconforto. Salutai i genitori e me ne andai a casa, a piangere, cosa che feci per i successivi quattro giorni. Il funerale fu terribile. La chiesa era piena di persone che non gli avevano neanche mai parlato, che non erano mai andate a trovarlo in ospedale, alcune non sapevano nemmeno chi fosse. Niente. Facevano dei discorsi insulsi e nemmeno lo conoscevano. Ero letteralmente morta dentro. Ogni secondo era peggiore del precedente, provavo una tale angoscia che avevo perso la voglia di vivere. Non reagivo più a nulla. Avevo gli occhi vuoti, stavo giorni interi a fissare una parete, con gli occhi morti, con occhi che non vedevano, con occhi che guardavano e basta. –Oggi devi andare. – mi disse mia madre, aprendo la porta da cui entrò uno spiraglio di luce, a spezzare il buio che fino a quel momento mi aveva avvolta. Lei assisteva a tutta questa sofferenza. Nonostante fosse mia madre non mi impediva di farlo, non poteva guarirmi e lo sapeva. –Va bene. – sussurrai, tenendo lo sguardo fisso al muro. Mi alzai dal letto e strisciai all'armadio, prendendo dei vestiti puliti e cambiandomi. Svogliatamente andai in bagno, lavai il viso e pettinai i capelli, legandoli in una coda di cavallo, rendendomi quantomeno presentabile. Mi soffermai a guardarmi allo specchio e subito mi saltarono all'occhio il mio incarnato smorto e le occhiaie marcate, causate dai giorni chiusa in camera, al buio. Giorni vuoti e senza sonno. Sospirai e distolsi lo sguardo, schifata da quello che ero diventata. Andai a scuola solo per far contenta mia madre, ma quando la professoressa si accorse che non ero molto presente mi mandò fuori dalla classe, constatando che, con me o senza di me, durante la lezione non sarebbe cambiato molto, e andai in bagno. Mi sedetti a terra e, come facevo già da qualche giorno, rimasi a fissare il muro opposto a quello al quale ero appoggiata. A distrarmi dal trans in cui ero entrata, mentre distrattamente vagavo fra i ricordi dell'amicizia fra me e Adam, furono delle risatine e versi di una ragazza. La porta del bagno di aprì e da quella entrarono Sebastian e una ragazza, mentre si baciavano e ridacchiavano, facendo vagare le mani sul corpo dell'altro. Non appena si accorsero di me il ragazzo si staccò la biondina di dosso, quasi come se il contatto col suo corpo gli bruciasse la pelle, e si asciugò la bocca col dorso della mano, guardandomi con vago imbarazzo e a disagio. La ragazza aggrottò le sopracciglia, confusa, probabilmente sapendo che Sebastian non avrebbe mai agito così in casi normali, ma alla fine si arrese al fatto che non avrebbero mai ripreso quello che era stato interrotto e, alzando gli occhi al cielo, uscì dal bagno. Il ragazzo aprì le braccia esasperato, rivolto alla ragazza, e sbuffò. –Oh andiamo, potevamo riprendere fra cinque minuti. – si lamentò, contrariato. Sbuffò e, dopo essersi ricordato della mia esistenza, tornò a guardarmi e venne a sedersi accanto a me. Io non lo degnai di uno sguardo, preferendo infinitamente contare le crepe del muro che guardare la sua aria stravolta e le sue labbra rosse e gonfie post sessione preliminare di baci. Se solo in quel momento non stessi soffrendo tanto sarei sicuramente stata gelosa. –Hai una sigaretta? – chiesi, con un fil di voce. –Da quando fumi? – mi chiese, circondandomi le spalle con un braccio, il tono non preoccupato, solo confuso. Appoggiai la testa sulla sua spalla, in cerca di un minimo di conforto, non preoccupandomi del fatto che potesse sembragli strano, e gli infilai una mano in tasca, estraendone un pacchetto di sigarette e un accendino. –Infatti non fumo. – dissi, la voce vuota. –Voglio solo provare. – Provare a vedere se mi distende i nervi. Pensai. Aprii il pacchetto e ne estrassi una, portandola alle labbra. A quel punto Sebastian mi strappò l'accendino di mano, facendomi spostare bruscamente lo sguardo su di lui, impassibile nonostante il gesto secco e rude. –Perché? – chiese confuso, aggrottando le sopracciglia. Dentro provavo un dolore immenso, ma fuori ero fredda e distaccata, non mi stupivo che si chiedesse il perché di quel mio comportamento. –Non c'è un perché a tutto. – sussurrai, ad un palmo dal suo viso. Mi ero chiesta tante volte perché Dio avesse deciso di prendersi Adam, perché me lo avesse strappato via, perché gli avesse impedito di rimanere con me, ed ero arrivata ad una sola conclusione. Non c'era alcuna ragione. Lo sguardo perso nei suoi occhi. Scrutò i miei con altrettanta intensità, cercandovi la ragione della mia tristezza, ma non vi trovò altro che dolore e vuoto. Fu proprio per questo che alla fine cedette e mi accese lui la sigaretta, facendo il primo tiro per poi porgermela. La portai fra le labbra e aspirai il fumo, inghiottendolo subito dopo. Feci un colpo di tosse, ma mi abituai velocemente alla presenza del fumo nei polmoni e alla sensazione di bruciato che sentivo sulla lingua. Arrivata a metà gliela cedetti e lui, senza pensarci, la spense nel gabinetto tirando l'acqua per poi tornare a sedersi accanto a me. –Ho paura. – confessai, asciugandomi le lacrime che da poco avevano iniziato a rigarmi il viso. –Di cosa? – mi chiese perplesso, stringendomi a lui, così esile a suo confronto, stavo perfettamente fra le sue braccia. –Di non riuscire a vivere senza di lui. – dissi, provando un crampo al cuore al pensiero che non l'avrei più rivisto. –Dovresti andare a trovarlo. Sai, parlare sulla sua tomba. Gli racconti qualcosa, piangi un po'. Le solite cose. Non ti farebbe male, riusciresti a superarlo. – disse, gesticolando in modo buffo. –Infondo, prima o poi, tutto passa. –

***

"Mai ci diremo addio,
Mai ci diremo ciao.
Al fin ci incontreremo,
Di fronte al signor. "

Adam Will Williams

1998-2015

Ero inginocchiata difronte alla tomba di Adam. Leggevo e rileggevo la poesia che i suoi genitori avevano scelto di far incidere sulla lapide. I ricordi di quando gliela suonavo e lui la canticchiava, da piccoli mi inondavano la mente come le lacrime mi inondavano gli occhi. Aveva una voce così bella. Ora era solo un ricordo. Bellissimo, ma solo un ricordo. Sistemai il grande mazzo di rose bianche che gli avevo portato sulla terra ancora smossa. Era passata quasi una settimana e mezza da quando lo avevano sepolto e non c'era ancora niente sulla sua tomba, a parte il mio mazzo di rose e circa dieci lumini disposti tutti attorno alla lapide di marmo grigio scuro. –Ei. Mi manchi tantissimo. Manchi a tutti tantissimo, a Eva, ai tuoi, a tutti. Ma soprattutto a me. So che mi hai vista, so che hai visto come mi sono ridotta in questi giorni e mi dispiace, ma averti perso è stata la cosa più brutta che mi sia mai successa fin ora. Quando mi sono resa conto che fare questo non avrebbe fatto altro che farti stare male era tardi. Ma oggi, oggi ho capito che io non ti ho perso. Insomma, magari non sei qui in carne ed ossa in questo momento, ma sei e sarai sempre nel mio cuore, a darmi forza nei momenti brutti, ad aiutarmi, perché sei il mio migliore amico. Lo sarai per sempre. E adesso sto piangendo come una cretina e probabilmente la gente che passa nel cimitero starà pensando "Guarda questa che parla da sola e pure piange" ma non mi importa, perché hanno torto marcio. Io non parlo da sola, parlo con te. Una delle persone più importanti per me e possono anche andare a farsi fottere. Ti voglio bene Adam. Non te lo dirò mai abbastanza e non ci sarà giorno in cui non penserò a te, alle nostre giornate e ai nostri momenti bellissimi. Grazie. – dissi tra le lacrime e mi sporsi per baciare la lapide. Mi alzai e me ne andai sollevata. Il nodo che avevo in gola, il peso sul cuore, tutto si dissolse in un secondo. Facendomi sentire... Felice. Si, felice. Felice di averlo accanto a me lo stesso. Non se n'era andato, era nel mio cuore, sempre insieme a me. Non mi avrebbe mai lasciata. Ora lo sapevo. Avrei sempre avuto un po' di angoscia nel profondo, per non poterlo abbracciare ogni qualvolta ne avessi voglia, ma non se ne era andato, e il pensiero mi bastava. Sebastian aveva ragione. Mi aveva fatto davvero bene parlare un po' con Adam. Ero tornata in me, finalmente.

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Lidia00x
Inchiostroalpostodelsangue//


"Come aeroplanini di carta"Donde viven las historias. Descúbrelo ahora