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CHIARA POV'

Entro poco più di un'ora sarebbe arrivato Andrea e io ero nel panico. Quel pomeriggio mi aveva chiamata, appena dopo essere tornata dall'ospedale, e sentendo al mia voce da pianto aveva insistito perché gli raccontassi cosa stava succedendo. A quel punto, dopo avergli spiegato brevemente cosa era successo, scossa dai singhiozzi, aveva pensato che una serata fuori con lui mi avrebbe fatto bene e mi avrebbe schiarito le idee, distogliendomi dai pensieri per qualche ora. All'inizio ero stata contraria a ciò, non avendo la minima voglia di andare in un bar pieno di gente, fra il casino e la musica, ma quando mi aveva elencato tutte le motivazioni per cui non mi avrebbe fatto altro che bene, facendomi anche ridere per alcuni motivi assurdi, mi ero decisa e avevo accettato. In primis anche perché mi stava stressando l'anima a forza di chiedermi di andare con lui. Avevo appena staccato la chiamata, gli occhi iniettati di sangue, gonfi, il viso arrossato. Mi alzai in piedi, appoggiando il telefono sulla scrivania e mi asciugai il viso con il palmo delle mani, dirigendomi all'armadio per scegliere che abiti indossare. Optai per un paio di jeans stretti, chiari, e una felpa. Il clima di ottobre si faceva sentire forte e chiaro, la sera era piuttosto fresca, e un abito non mi sembrava adatto, né al mio umore, né al tempo che c'era fuori. Andai in bagno e la mia immagine riflessa nello specchio per poco non mi fece fare un infarto. I rimasugli del trucco messo quella mattina erano colati sotto gli occhi, creando due cerchi neri spaventosi e scendendo poi in linee dritte sulle guance. Iniziai a rimuovere il trucco con dello struccante e una volta finito lo rinnovai, mettendone giusto un velo, molto più leggero del solito. Lasciai i capelli lisci al naturale e gli diedi solo una spazzolata, per metterli in ordine e districare i nodi. La vibrazione del mio cellulare, appoggiato sul lavandino, attirò la mia attenzione. Lo afferrai e aprii la chat con Andrea *Sono sotto casa tua, scendi. * *Arrivo. * digitai in fretta. Tornai in camera, presi la borsa, in cui infilai le chiavi di casa e il cellulare, e scesi al piano di sotto, trovandolo vuoto, visto che anche quella sera mia madre aveva il turno di notte. Uscii di casa e proprio davanti ad essa, appoggiato al suo motorino, trovai Andrea. Appena sentì la porta chiudersi alzò gli occhi su di me e le sue labbra si piegarono in un sorriso estremamente dolce, come sempre. –Ei. – mi salutò, alzando una mano. Ricambiai il gesto brevemente, accompagnandolo con un sorriso. –Ciao. – Si girò, afferrando due caschi e uno lo porse a me. –Dove mi porti? – chiesi, armeggiando con il laccetto che si usava per fissare il casco alla testa. A quel punto il ragazzo mi si avvicinò, scacciando le mie mani, e lo chiuse al posto mio, dandomi una pacca amichevole sul casco. –Andiamo in un piccolo locale in centro, c'è sempre bella musica e servono da bere anche ai minorenni. – mi rivolse uno sguardo furbo, ammiccando, prima di voltarsi e montare sul motorino. Ridacchiai e salii dietro di lui, allacciando le braccia alla sua vita. –Non sapevo avessi un lato selvaggio. Andare in un locale in cui non controllano l'età, che ragazzaccio. – ironizzai, facendolo ridere. Mise in moto, dopo aver scosso brevemente la testa, e partimmo. Il viaggio durò poco più di una ventina di minuti, in cui il ragazzo tentò in tutti i modi di farmi fare un infarto, prendendo ogni tombino gli capitasse davanti. –Sei uno stronzo. – sbottai, appena scesi da quell'aggeggio infernale. Rise, togliendosi il casco e infilandolo sotto al sedile, che successivamente chiuse a chiave. Tolsi il mio, trovando molto più facile slacciare il gancetto che allacciarlo, e glielo porsi. Il locale in cui mi aveva portata aveva un aspetto molto più sobrio di quelli che spesso avevo visto. Sul lato destro c'erano dei tavolini circondati da piccoli divanetti monoposto e doppio posto paralleli fra loro, che si protendevano per tutta la parete. In fondo ad essa si trovavano due porte, probabilmente i bagni, divisi per sesso. Sul lato sinistro l'angolo bar, composto dal bancone e da numerosi sgabelli per tutta la lunghezza di esso, su cui già sedevano svariate persone. Mentre al centro della sala lo spazio libero era occupato da chi, volendosi divertire, ballava. L'atmosfera non era pesante, non come nei classici locali in cui non vedi oltre il tuo naso per colpa del fumo artificiale o delle troppe persone. La musica non era troppo alta e l'illuminazione era notevole. Appena entrammo, dopo aver preso un tavolo libero ed aver appoggiato le nostre cose, il ragazzo volle subito portarmi al centro della pista. –Andiamo a ballare. – propose, entusiasta. Non volendo deluderlo lo seguii al centro della sala e ci unimmo ad una decina di persone, che come noi si stava scatenando, inventando passi a caso a ritmo di musica. Iniziai a dimenare i fianchi in modo sciolto, mentre Andrea mi guardava e provava a imitarmi, con gesti impacciati e buffi. Risi difronte alla sua goffaggine, cosa per cui non si offese, ma di cui rise di gusto a sua volta. Mentre mi lasciavo andare, facendo scorrere via dal corpo ogni preoccupazione, ogni peso, lasciai vagare lo sguardo per la sala. Intravidi un volto familiare, in un angolo, seduto su una poltrona con un bicchiere in mano. Non vedevo Sebastian da quella mattina, in bagno, quando ero scappata via piangendo, diretta in ospedale, da cui poi i genitori di Adam mi avevano praticamente cacciata, imponendomi di tornare a scuola, cosa che chiaramente non feci. I suoi occhi color ghiaccio, fissi sul mio viso, mi trasmettevano tutta la sua inquietudine. Le sopracciglia aggrottate creavano un cipiglio fra esse, caratterizzando l'espressione corrucciata che aveva assunto il suo viso. In quel momento non riuscii bene a capire se mi guardasse così perché ero con Andrea o semplicemente perché quella mattina piangevo sulla sua spalla e in quel momento mi trovavo al centro di una pista da ballo a scatenarmi con un ragazzo. Solo in quel momento realizzai l'assurdità della situazione, il mio migliore amico era in coma e io, al posto di stargli vicino, al posto di pregare che si svegliasse, ero in un locale e per giunta mi divertivo. Presto le mie labbra formarono una linea dritta mentre un ondata di senso di colpa misto a tristezza invadeva la mia mente. Sono un'amica di merda. Realizzai, mentre i miei movimenti lentamente si fermavano. Andrea mi guardò confuso, fermandosi anche lui. –Che succede? – mi chiese, appoggiandomi una mano sul braccio. Spostai rapidamente lo sguardo su di lui, distogliendo gli occhi da quello di Sebastian, e mi morsi il labbro. –Io... possiamo andare a bere qualcosa? – chiesi, improvvisamente più tesa. Il senso di colpa si stava trasformando in ansia, tendendo ogni muscolo del mio corpo come una corda di violino. Il ragazzo mi guardò confuso, ma non disse una parola, limitandosi ad annuire. Mi mise una mano sulla schiena e mi spinse verso i divanetti, su cui avevamo lasciato le nostre cose, presi la borsa e andammo verso il bar. Involontariamente mi voltai verso Sebastian, trovandolo ancora a fissarmi, proprio nel momento in cui Andrea mi afferrò dai fianchi e mi sollevò, aiutandomi a sedermi sullo sgabello decisamente troppo alto perché ci arrivassi da sola, senza aiuto. Il ragazzo a quel gesto strinse i pugni con talmente tanta forza che ruppe il bicchiere che teneva in mano, presto ricoperta del suo stesso sangue, mentre un rumore di cocci rotti appena udibile si faceva sentire. Il gruppo di persone che aveva attorno si voltarono tutti verso di lui, con aria allarmata, ma non li degnò di uno sguardo. A testa bassa, con la mascella serrata e le labbra pressate in una linea dritta, si alzò, e a passo lento si diresse verso i bagni. Mi voltai verso Andrea, mentre mi mettevo in spalla la borsa, scendendo dallo sgabello. –Vado un attimo in bagno. – Il ragazzo mi guardò nuovamente confuso, aggrottando le sopracciglia, ma lo ignorai e come una scheggia mi diressi al bagno degli uomini, entrando poco dopo Sebastian. Lo trovai davanti ad un lavandino, intento a fissarsi la mano ricoperta di sangue. Mi avvicinai e l'afferrai per vederla. Con l'altra mano afferrai un fazzoletto e lo bagnai, iniziando a pulirgli la ferita, fermandomi solo per togliere qualche vetro incastratosi nella pelle. Non fiatò, solo qualche piccolo lamento quando toglievo dei pezzi di bicchiere dalla mano. –Che ti è preso? – sbottai all'improvviso. Il tono calmo, mentre ero concentrata sul mio lavoro. Alzai gli occhi e trovai i suoi fissi nei miei, a studiarli, ridotti a due finissime fessure. Sbuffò, interrompendo il nostro contatto visivo, e tolse la mano dalla mia con un gesto secco, al quale aggrottai le sopracciglia. Se ne andò, sbattendo la porta alle sue spalle, mentre borbottava sottovoce qualcosa di incomprensibile. Uscii dal bagno subito dopo di lui e guardai al tavolo a cui era seduto prima, non trovandolo però lì. Feci vagare rapidamente lo sguardo per la stanza e lo intercettai mentre si dirigeva alla porta d'entrata e se ne andava. Confusa me ne tornai al bancone, dove Andre mi aspettava, con il telefono in mano. –Eccomi scusa. – dissi, appoggiando la borsa sullo sgabello. –Chiara, ho un piccolo problema. Devo andare via. C'è qualcuno che può accompagnarti a casa? – chiese mortificato, mordendosi il labbro mentre infilava il telefono in tasca. –Certo, sta tranquillo. – mentii, abbozzando un sorriso falsissimo. Ricambiò il sorriso, con uno molto più reale, e dopo un breve salutò uscì dal locale di corsa. Uscii a mia volta, poco dopo di lui, e provai a chiamare mio padre, sperando che non decidesse anche quella sera di fermarsi in ufficio fino a tarda notte. Inutile dire che trovai il telefono spento, segno che sì, si sarebbe fermato anche quella notte in ufficio. Rassegnata mi incamminai a piedi, non prendendo nemmeno la strada più breve, quella del parco, ma decidendo di fare quella più lunga. Mi strinsi nella felpa quando una ventata fresca mi colpì, entrandomi fin dentro le ossa. Fra tutto quel silenzio, nella strada deserta, illuminata solo da qualche lampione, mi fu inevitabile iniziare a pensare e presto il senso di colpa e la tensione ripresero a farsi sentire. Vidi un gruppo di ragazzi, a qualche metro da me, che vedendomi iniziarono a fischiare e urlare parole incomprensibili. Nulla di più che un miscuglio di sillabe unite a casaccio. Uno di loro in particolare mi si avvicinò più degli altri. La puzza di alcool del suo alito si imbatté sul mio viso, facendomi provare un opprimente sensazione di nausea. Afferrò una ciocca di capelli e iniziò ad accarezzarla, attorcigliandosela fra le dita. A quel gesto mi immobilizzai sul posto, sentendo il sangue ghiacciarsi nelle vene. Ero combattuta, potevo scappare e, con un po' di fortuna, visto che erano ubriachi e i loro riflessi molti più lenti, sminarli, oppure rimanere immobile e sperare in un miracolo divino. Appena mi accerchiarono persi ogni speranza, e decisi per la seconda opzione, rimanere immobile e attendere un miracolo. –Ciao bellezza. – disse, la voce bassa e rauca raccapricciante. Non appena aprì bocca un'altra folata del suo alito pesante si imbatté sul mio viso, peggiorando la nausea che già prima mi aveva causato. Se avessi avuto uno specchio avrei scommesso di essere impallidita spaventosamente. I battiti del mio cuore accelerarono, mentre pompava più sangue, in cui rilasciai una dose massiccia di adrenalina. –Ei, il gatto ti ha mangiato la lingua per caso? – biascicò, mentre le guance rosse si coloravano sempre di più, prendendo una sfumatura quasi violacea. Mi avevano circondata, non potevo scappare.

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Lidia00x
Inchiostroalpostodelsangue//



"Come aeroplanini di carta"Kde žijí příběhy. Začni objevovat