OTTO

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Kate rimase completamente immobile sulla sedia. Guarda Lanie con l'espressione di una che stava gridando "dimmi che non è vero".
- No... no... - le sue parole furono appena un sussurro.
- Kate, dimmi la verità, è possibile che Joy sia tua figlia?
- Sei sicura Lanie? - Le chiese con un filo di voce.
- Ho ripetuto la verifica tre volte. La compatibilità è del 99,9%. Lo sai cosa vuol dire, vero?
Kate si abbandonò sullo schienale, con le mani si coprì gli occhi.
- Ci ho pensato, sai? Ma la data di nascita non era uguale. Joy è nata il 23 giugno e io... io... era il 22... è nata il 22 giugno, era mattina presto.
- Oh mio Dio Kate, perché?
- È successo tutto a Stanford, Connor Cooper, frequentava i miei stessi corsi. Era gentile e tanto carino. Una festa, qualche drink di troppo e una leggerezza. Sai quando dici, tanto una volta sola, cosa mi può accadere? Invece è accaduto e quando gliel'ho detto lui mi ha detto che se volevo mi aiutava a pagare l'intervento per abortire. Io invece volevo tenerlo, ero sicura che ce l'avrei fatta. Quella sera, la sera in cui mia madre è stata uccisa avevo deciso di dirlo ai miei e poi... mi è caduto il mondo addosso... Non ho avuto modo di pensare più a nulla e poi era troppo tardi per decidere altro. Non me la sono sentita di tenerla...
- L'hai data in adozione...
- Sì. Nel frattempo mio padre era caduto nell'alcolismo e io mi sono isolata da tutto fino a quando non è nata. Io volevo solo darle un futuro migliore, Lanie, volevo che avesse una famiglia vera, tutto quello che io non potevo darle... Io non sapevo nulla di quella malattia, non sapevo niente... Dio mio, Lanie! Cosa ho fatto... cosa ho fatto...
- Kate io... non so cosa dire...
- Non lo sapeva nessuno. Solo Kelly, una mia amica dell'epoca che poi non ho più visto né sentito da anni... All'inizio pensavo sempre a lei, poi per tanti anni ho fatto finta che non esistesse ma... Non si può mai, fino in fondo... Poi quando l'ho vista... più leggevo questa storia più vedevo cose simili ma mi dicevo che non poteva essere... - Kate sembrava un fiume in piena che stava per tracimare investita da un flusso troppo grande di emozioni e ricordi.
- Cosa pensi di fare adesso?
- Non lo so... non ne ho idea, ma ti prego Lanie, non dire nulla a nessuno.
- Kate, io credo che adesso dovresti essere sincera, dovresti dirlo a Joy ed anche a Castle.
- Dire cosa? Che sono la persona che l'ha abbandonata appena nata? Che per colpa mia ha vissuto 10 anni di inferno sballottata da una famiglia all'altra passando per istituti dove la prendevano in giro? Che per colpa mia ha una malattia che rende la sua vita impossibile? - Si era alzata ed aveva cominciato a camminare nervosamente per la stanza mentre Lanie la seguiva con lo sguardo.
- Magari vorrebbe sapere solo che sei sua madre. Forse le basterebbe questo.
- Oppure potrebbe odiarmi come sarebbe giusto che fosse e non volermi più vedere e ne ne avrebbe tutto il diritto.
- Kate, grazie a te potrebbe avere una speranza di guarire, di provare quelle cure sperimentali, questo glielo devi, ci hai pensato?
- Certo che ci sto pensando Lanie! Cosa credi? Che non mi importa nulla di lei? - si voltò verso la dottoressa con uno scatto rabbioso e Lanie potè notare i suoi occhi imperlati di lacrime che faticavano a trovare una via d'uscita. - Volevo trovare chi fosse sua madre anche... anche prima di sapere che lei... che sono io...
- No. Non penso questo. Penso solo che ora sei sconvolta come è normale che sia. Prenditi qualche momento per pensare.
- Sì, forse... forse è meglio. Manda tutto ai ragazzi, tutto quello che riguarda il caso, non Joy. Io chiamo Montgomery, ho bisogno di staccare un attimo da tutto. - Raccolse la sua borsa finita a terra non ricordava nemmeno quando e andò via senza nemmeno salutare Lanie.
- Kate, se ti serve qualcosa, qualsiasi cosa, chiamami, ok tesoro? - La dottoressa si era precipitata sulla porta ed aveva chiamato la sua amica già sul corridoio. Si girò e fece solo un segno affermativo con la testa, poi affrettò il passo per raggiungere velocemente l'uscita.

Fuori da lì Beckett chiamò il distretto. Disse che non si sentiva bene ed aveva bisogno di riposo. Comunicò a Montgomery che si sarebbe presa il week end libero, aveva molte ferie arretrate e un improvviso impegno familiare da risolvere. Per quanto il suo comportamento fosse strano, il capitano non fece altre domande e subito dopo aver attaccato Beckett sorrise amaramente pensando che non aveva detto poi una bugia. Si sentì morire ugualmente, anzi ancora di più.



Ricordava quei discorsi che aveva sentito alcune volte fatti forse per scoraggiare le ragazze dalle donne più adulte che per altro. Il parto è il momento più doloroso della vita di una donna. Sua madre non glielo aveva mai detto, anzi, le aveva raccontato più volte di come lei fosse nata in modo molto naturale e non le aveva mai parlato di sofferenza, ma solo di gioia nel vederla finalmente. Le aveva raccontato di come i suoi occhi erano già aperti e curiosi e di quell'espressione seria, quasi arrabbiata, che aveva quando gliel'avevano messa in braccio per la prima volta. Johanna le diceva sempre che il suo caratterino lo aveva mostrato da subito.
Lei però non era d'accordo con quei discorsi. Anche sua figlia era nata senza complicazioni. Era una bambina bella e sana, le avevano detto, ma non l'aveva vista, non gliel'avevano fatta abbracciare appena nata. L'aveva sentita piangere, l'aveva seguita con lo sguardo, l'aveva aspettata, ma l'avevano portata via. Prima di entrare in sala parto le avevano chiesto ancora se era sicura della sua scelta e lei, facendo prevalere la ragione su tutto il resto, aveva detto di sì. Per questo non gliel'avevano fatta abbracciare, sentire, vivere. Perché poi non l'avrebbe più lasciata, così aveva detto l'infermiera. Lo avevano fatto per lei, per non rendere tutto troppo doloroso. Ma già lo era e non era vero che il parto era il momento più doloroso, il distacco lo era molto di più. La tennero in osservazione, aveva un braccialetto al polso senza nome, solo un numero. Trovò il coraggio di alzarsi ed andare al nido, la voleva vedere, almeno una volta. Così cercò il numero 10 tra le culle ed anche lì c'era solo il numero, nessun nome.
«Non dovresti essere qui» le disse l'infermiera del nido.
«Lo so, ma volevo vederla, almeno una volta. Come la chiameranno?» Chiese Kate appoggiata al vetro per osservare meglio quella bambina, la figlia che non sarebbe mai stata sua.
«Tocca a me sceglierlo questa volta. Facciamo a turno» Le disse la donna poggiando una mano sulla spalla di Kate visibilmente scossa.
«Io l'avrei chiamata Joy. Un augurio, per la sua vita» La bimba era sveglia e vispa e le parve che per un istante si fosse voltata verso il vetro e l'avesse guardata anche lei. Non sapeva allora che da quella distanza i neonati non vedono nulla, ma nel suo cuore di ragazza volle conservare quell'illusione.
«Vieni, Kate, ti riaccompagno in camera»
Prese un pennarello dalla sua borsa e scrisse da sola quel nome sul braccialetto, poi firmò la cartella per le sue dimissioni e se ne andò, contro il parete di medici e di infermieri, ma sentiva di non poter stare lì un momento di più sapendo che quella figlia che non sarebbe mai stata sua era a pochi metri da lei ed erano braccia estranee quelle che la tenevano, le davano da mangiare e provavano a calmare il suo pianto senza, per lavoro non per amore. Non aveva mai saputo, fino a quel momento, che quell'infermiera della quale ignorava il nome, avesse scelto proprio quello da dare a sua figlia.



Arrivata a casa si precipitò in camera, aprì l'armadio e scavò in fondo, sotto a delle borse che non usava più, sotto alle valige per quei viaggi che non aveva mai fatto, trovò una scatola che voleva dimenticare ma che non aveva mai avuto il coraggio di buttare.
C'era quel braccialetto e la scritta era sempre ben visibile, c'erano alcune sue foto che la sua amica le aveva scattato durante la gravidanza che non aveva mai voluto rivedere, perché testimoniavano quello che avrebbe voluto dimenticare. C'erano le copie delle sue ecografie, tutte in ordine di data. C'era la lettera che le aveva scritto il giorno di Natale, quando tutto ancora doveva accadere, quando immaginava per loro una vita diversa, quando c'erano i sogni e le paure di una ragazzina convinta che ce l'avrebbe fatta a crescere e diventare madre, prima di scoprirsi troppo fragile e troppo figlia quando le avevano strappato via la sua. C'era quel paio di scarpette bianche che aveva comprato, vergognandosi un po' e dicendo che erano il figlio di una sorella più grande, che non aveva. C'era la lettera che aveva scritto quando aveva deciso di darla in adozione dove con la semplicità dei suoi nemmeno vent'anni provava a spiegarle il perché e quella dopo che era nata dove le raccontava il suo dolore per quella decisione. Era l'ultima cosa che aveva messo lì, prima di chiudere quella scatola per sempre, fino a quel giorno. Perché la vita era assurda ed il destino beffardo. Ed i conto che lei doveva pagare in quel momento le sembrava troppo alto anche per tutti i suoi sbagli.

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