Cicatrici

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Da dentro, nulla scompare.

Sapevo che le cicatrici erano segni di ferite chiuse, e che la loro presenza sulla pelle ci ricordava i nostri errori. Un po' come un monito. Qualcosa da tenere sotto gli occhi durante i giorni di sole, quelli più belli. Quelli senza pensieri e senza traumi, senza drammi.

Lo sapevo. Non ero più un ragazzino. Sapevo che le cicatrici esistevano proprio per quella ragione. Ricordarci ciò che in passato ci aveva fatto del male, per aiutarci a non scivolare più in un vecchio errore già commesso.

Avevo baciato Marianne, e invece di pensare a quanto tutto sembrasse incredibile, pensavo alle mie cicatrici. E alle sue. A quelle che io le avevo lasciato.

E profumava di buono.

Come una primavera a Natale.

Non la capivo, non ne decifravo il comportamento, ma non mi stupiva. Lei era così. Irrazionale, imperfetta. Maledettamente impossibile da sostituire.

Fu un bacio lungo, intenso, vivo. Più di quello che ci eravamo scambiati sulle scale davanti al suo portone. Mi riportò ai miei sedici anni e forse era proprio così; forse quel sedicenne impulsivo e scalmanato era ancora lì, da qualche parte.

Quando ci staccammo, i nostri occhi si incrociarono e non si allontanarono più.

<<Finalmente vi ho trovati>> disse Ryan venendo verso di noi.

Sentii il respiro di Marianne addosso. Avrei voluto baciarla ancora. E ancora, e ancora. Invece mi avvicinai a Ryan. Dai suoi occhi, capivo che lui aveva capito quanto era appena successo tra di noi.

Rimanemmo in silenzio per alcuni istanti, poi decidemmo di lasciare il Museo del Cinema.

Camminammo tutti e tre, insieme, per la città. Esplorammo piazze e giardini, strade strette e diritte che poi sbucavano sempre in pieno centro, tra infiniti portici che si inseguivano e ricoprivano negozi di ogni tipo.

Fu un bel momento. Alla fine, dopo aver trascorso un'ora in Piazza Castello, e dopo i mini concerti improvvisati di svariati musicisti ambulanti che Marianne mi costrinse ad ascoltare, tornammo verso Piazza Vittorio.
Non erano ancora le otto, così ci fermammo a bere un calice di vino in uno dei tanti locali aperti. Ne approfittammo per mangiare anche qualcosa, e poi passeggiammo per un po' in una delle zone che più amai di Torino. Era sempre in centro, alla fine di Piazza Vittorio. C'era un grande ponte che si affacciava sulla basilica della Gran Madre, come ebbe modo di spiegarci Marianne. Sotto di noi, l'acqua del fiume Po scorreva gelida, e vista da lì, la città sembrava essere divisa a metà. Dietro la Gran Madre, potevamo scorgere le infinite luci che illuminavano la collina, dove il nostro sguardo finiva poi con l'andarsi a perdere del tutto.

Guardai Ryan, poi Marianne.
Era un bel momento. Lo era davvero. Così, fermai un passante e gli chiesi di scattarci una fotografia con il mio telefono. Noi tre e la Gran Madre con la collina sullo sfondo, alle nostre spalle.
Lui lo fece e poi mi restituì il telefono, ed io pronunciai un "grazie" in un italiano appena stentato.

<<Non siamo venuti così male, no?>> dissi, rivolgendomi a Ryan.

L'ex detective sorrise, e Marianne fece lo stesso.

Mezz'ora dopo, eravamo di nuovo nell'elegante palazzina dove avevamo parlato con la moglie di Roberto Salviati, Giulia.

Il marito, adesso, era di fronte a noi. Era appena tornato dal lavoro, e sembrava stanco. Come sempre, fu Marianne a parlare.

<<Ci dispiace davvero per il disturbo che le stiamo arrecando, signor Roberto. Ma si tratta di qualcosa di estremamente importante, e ci auguriamo con tutto il cuore che lei possa esserci d'aiuto.>>

La ballerinaWhere stories live. Discover now