Marianne

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La mattina successiva mi svegliai presto, prima delle sei.

Una doccia, una tazza di caffè, e poi uscii di casa.

Abitavo in un piccolo appartamento nella zona più vecchia di Virginia, non troppo lontano dal centro.

Scesi in garage, salii sulla mia cinquecento rossa nuova e accesi il motore.

Con le mani ferme sul volante, prima di partire, mi fissai attraverso lo specchietto.

Marianne era bellissima quella sera.

Il corpo esile e sensuale stretto in un vestito bianco che le arrivava sopra le ginocchia la faceva sembrare ai miei occhi la ragazza più attraente dell'universo. I capelli neri che le cadevano poco oltre le spalle le scivolavano davanti agli occhi, e lei allora li spostava di lato, regalando spazio al proprio sguardo, così intenso.


Così sincero.

Eravamo quasi sotto casa, nel nostro appartamento di New York.

La Cinquecento rossa che le avevo regalato brillava sotto la luce timida del sole che stava scivolando via, in quel tramonto di fine estate.

<<Ti piace?>> le avevo domandato, posandole una mano sul braccio.

Lei si era voltata verso di me e mi aveva sorriso. Non era mai stata in grado di nascondere ciò che provava. La verità le si leggeva sempre così bene negli occhi.

<<È bellissima, Ethan. Non dovevi.>>

Ma nella sua voce c'era un velo di malinconia che era impossibile non percepire.

Eravamo alla fine della nostra storia, dopo cinque anni di convivenza e altri tre di fidanzamento.

L'avevo guardata, l'avevo abbracciata, avevo cercato di ritrovare il calore che, senza renderci conto, eravamo stati bravissimi a lasciar scappare via. Sapevo che gran parte della colpa era mia e del mio lavoro al Times. Avevo concentrato su quel giornale tutto il mio tempo e le mie energie, dimenticandomi troppo spesso di lei. Di noi.

<<Non.. Non è così che può andare, Ethan.>>

Aveva distolto lo sguardo dalla Cinquecento e si era voltata verso il parco alle nostre spalle.

<<Non può... non può funzionare con te che ti presenti qui, mi regali un'automobile e poi scompari ancora. E ancora. E ancora.>>

Avevo esitato, avevo fatto un passo indietro.

<<L'ho comprata perché dopo averla vista ti ho immaginata a guidarla, Marianne. Tutto qui.>>

<<Sai che cosa penso, Ethan. Il tuo problema è che ti rendi conto dei tuoi errori quando è troppo tardi per trovare una soluzione.>>

Avevo abbassato la testa. Non avevo trovato una risposta, io che con le parole mi guadagnavo da vivere.

Sapevo di aver sbagliato tutto, ma non ero pronto a perderla. Non ero pronto a lasciarla andare via. A immaginarla tra le braccia di qualcun altro. Non ne ero capace, rifiutavo di accettare quella realtà.

<<Marianne..>>

In mano avevo le chiavi dell'automobile. Le stringevo fino a farmi male con il metallo, mentre lei, lentamente, si allontanava da me e dal mio regalo.

<<Devo andare, Ethan. Ci vediamo.>>

I suoi occhi erano lucidi. Ero sicuro che vederci cadere in pezzi facesse male anche a lei, perché sapevo quanta fiducia, quanta speranza avesse riposto in noi.

Ero rimasto immobile a guardarla mentre si allontanava.

Era stato in quel momento che avevo capito, per la prima volta davvero, che la nostra storia era finita.

Fu il suono del cellulare a svegliarmi da quei ricordi.

Lessi il nome sul display: David Hattinson.

Era il mio capo al piccolo quotidiano locale di Virginia presso il quale adesso lavoravo.

Lo lasciai suonare senza rispondere e, dopo essere uscito dal garage, mi diressi in redazione.

Fermo a un semaforo, tirai fuori dalla tasca del cappotto la busta di plastica trasparente all'interno della quale avevo infilato il ciondolo che avevo trovato davanti alla scuola di danza.

La appoggiai sul cruscotto e mi ritrovai a fissare ancora una volta quella catenina con l'emblema composto da due mezze lune che si incrociavano.

Mi domandai di nuovo dove l'avessi già vista, in quale occasione, e di nuovo non trovai una risposta.

Strinsi la busta tra le mani, la osservai meglio, più da vicino.


Scossi la testa, invaso da una sensazione terribile di frustrazione, di impotenza.

L'assassino aveva perso qualcosa che io avevo già visto, e non ricordavo né dove né quando.

Fu il suono di un clacson a distogliere la mia attenzione da quei pensieri e a farmi ripartire.

Guardai nello specchietto retrovisore e per un istante mi sembrò di rivedere il viso della ballerina morta.

I suoi occhi erano sereni adesso, e lei sembrava ridere, ma non era una bella risata. Faceva paura.

Rideva, rideva così forte, con le labbra sporcate dal rossetto che si mischiava al sangue.

Rideva senza fermarsi e alla fine esplodeva in un pianto eterno, e allora provai una sensazione nuova, sinistra: fu come se stessi precipitando in un baratro nero e senza fine.

La ballerinaWhere stories live. Discover now