Ricordi il Luna Park?

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Non avevo mai pensato alla fine di tutto.

Non avevo mai voluto guardare così in profondità nell'abisso, perché ricordavo bene ciò che Nietzsche aveva detto un tempo:

"Se guardi troppo a lungo nell'abisso, alla fine l'abisso guarderà in te.>>

Quella frase mi aveva sempre spaventata. Mi sembrava così vera, così profonda. Era qualcosa cui non avevo mai voluto pensare, prima.

Adesso, Cameron era riverso su se stesso, gli occhi fissi verso un punto davanti a sé, al di là delle mie spalle.

Un'espressione di stupire sul volto, mista a sofferenza. Come se non si fosse mai aspettato che qualcuno avrebbe potuto accoltellarlo alle spalle.

Accadde tutto così in fretta.

Lo Sconosciuto, in un lampo, si avventò contro l'uomo che aveva colpito Cameron. Gli tolse il coltello dalle mani, spezzandogli nello stesso istante un braccio, con un colpo solo, secco. Sentii il rumore dell'osso che si rompeva.
L'uomo cadde a terra e lo Sconosciuto, dopo essersi avventato su di lui, lo colpì tante, troppe volte in viso. Con pugni veloci, che si inseguivano a raffica, pieni di violenza, di ira.
Era una rabbia cieca. Qualcosa che doveva avere radici profonde, invisibili.

Continuava a colpirlo mentre io facevo distendere Cameron, cercando di fargli tenere la testa in su.
Non vi riuscii.

Lo Sconosciuto si sollevò da lui e raggiunse Cameron, che nel frattempo aveva chiuso gli occhi e non reagiva più a nulla.
Con il cuore impazzito, le mani e le gambe che non la smettevano di tremare e le ginocchia che sembravano voler vedere da un attimo all'altro, mi diressi verso Mitch.

Era rimasto immobile da quando ero entrata nella stanza.

Non sapevo ancora se fosse vivo o morto e non riuscivo a pensare più a nulla.

Mentre pochi passi mi separavano da lui, rividi in un flash una giornata di sole di fine maggio di qualche anno fa.

Il Luna Park di Mainwood.
Gli autoscontri.
Lo zucchero filato.
Mitch e Cecile che si tenevano per mano, io che ridevo.
I ragazzi intorno a noi che gridavano, correvano, facevano la coda per le montagne russe.
L'uomo al banco del tiro con il fucile che mi passava l'orsacchiotto che Mitch aveva vinto per me.
Il profumo dell'aria, le luci della sera che cominciavano a prendere il posto del giorno.
La musica che risuonava ovunque intorno a noi.
Il viso di Cecile. I suoi occhi straordinari che mi suggerivano che la felicità esisteva, era parte di noi. Una parte reale. Qualcosa che pensavo sarebbe durato per sempre.

E poi il sorriso di Mitch, ancora.
La mia mano nella sua.

Superai due corpi stesi a terra, scavalcandoli.
La sedia era sempre più vicina.

La raggiunsi, mi fermai. Cercai di mettere da parte quella voragine di sentimenti e ricordi in cui inesorabilmente stavo affogando.

Feci il giro, mi misi di fronte a Mitch.
Le mani e le gambe erano legate, la testa ricadeva verso il basso.

I suoi occhi erano chiusi.

Non riuscivo a capire se respirava o no.

<<Papà>> dissi, con la voce strozzata.

Lo slegai, gli toccai il viso.
Era ghiacciato, e non mi rispondeva.

<<Papà, sono io. Sono Rose, papà. Rispondimi, ti prego, rispondimi!>>

Mi sentivo così stupida. Non sapevo che cosa fare.
Appoggiai l'orecchio al suo petto. Gli presi le mani. Anche quelle erano ghiacciate.

<<Papà, ti prego, papà, sono qui. Sono qui con te.>>

Il ritorno verso casa era stato così bello.
La radio passava una canzone bellissima di cui non ricordavo il titolo.
Però ricordavo Cecile che si sistemava il trucco seduta accanto a Mitch che guidava, tendendo il finestrino abbassato e il braccio fuori.
Io avevo allacciato la cintura di sicurezza al peluche che avevo vinto.
Era stata una giornata così bella.
La mano di Cecile spettinava i capelli di lui, mentre il paesaggio dolce della Carolina ci correva accanto, silenzioso.

Era il giorno del mio compleanno, e quel momento, la mano di mia madre che andava a sfiorare mio padre, era stato il regalo più bello. Perché era un'immagine che mi sarebbe rimasta dentro per sempre.
Era la mia concezione personale di felicità.

Il mio momento perfetto.

<<Papà, ti prego. Dimmi che riesci a sentirmi!>>

Ma nulla, Mitch non rispondeva. Non riuscivo neanche a sentire il suo respiro.

Mi misi in ginocchio, un attimo prima che le lacrime incominciassero ad uscire fuori, veloci, incontrollabili.

In quella stanza piena di corpi stesi a terra, che era stata la stanza in cui ero cresciuta, adesso mi ritrovavo a piangere ai piedi di mio padre.

Ma non piangevo solo per la paura che avevo di perderlo, di non poter sentire mia più la sua voce.
Piangevo perché sapevo che, se lui fosse morto o se fosse sopravvissuto, le cose comunque non sarebbero mai più state come prima.

Non avrei mai più vissuto quel Luna Park nel modo in cui l'avevo fatto anni fa.

Cecile e Mitch che si amavano.
Io che, seduta sul sedile dietro, grazie a loro imparavo come fosse fatta la felicità.

Guardai lo Sconosciuto. Era ancora chino su Cameron.

Si rialzò, con aria cupa, e si diresse verso di me.

In quello stesso istante, Mitch tossì e poi, lentamente, riaprì gli occhi. Gli stessi occhi che mi sembrava di non vedere da un'eternità.

<<Papà! Papà, sono qui! Sono qui con te! Mi senti? Riesci a sentirmi?>>

Gli strinsi le mani con forza, lo abbracciai.

Lui sussurrò qualcosa, lentamente, debolmente.

Io sorrisi, mi avvicinai di più, lo abbracciai con tutta la forza che sentivo essere improvvisamente esplosa in me.

Ringraziai il cielo per avere ascoltato quelle preghiere che, in silenzio, avevano occupato ogni mio singolo pensiero durante tutto quel tempo.

<<Papà...>>

Lui mi guardò, poi, a stento, sorrise.

<<Rose...>> sussurrò, lentamente.

Lo Sconosciuto mi posò una mano su di una spalla.

Alzai lo sguardo su di lui.

Con gli occhi mi indicò il corpo di Cameron, disteso davanti a noi, all'altra estremità della stanza.

Cercai nello sguardo dello Sconosciuto una risposta, ma lui scosse debolmente la testa.

<<Non c'è nulla da fare, Rose. Mi dispiace>> disse, lentamente.

Avrei voluto rispondere qualcosa, ma non vi riuscii.
Non perché non trovassi dentro di me le parole che avrei voluto dire, ma perché non ne ebbi il tempo.

Vidi lo sguardo dello Sconosciuto posarsi sulla porta della mia camera, che era aperta.

Inseguii i suoi occhi e all'improvviso persi il respiro.

Sulla soglia, fermo immobile davanti a noi, c'era un uomo. Ci guardava, impassibile.

Ma non era un uomo qualunque. Era qualcuno che avevo già visto prima.

L'uomo con l'impermeabile nero.

Nate, il mio padre biologico.

Rose e lo SconosciutoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora