Presa di coscienza

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Rimasi immobile a fissare quel titolo per non so quanto tempo.

Fu come se la mia testa fosse stata invasa all'improvviso da un'onda gigantesca e devastante di vuoto.

Sollevai il fascicolo, asciugando le lacrime che avevano incominciato a rigarmi il volto.

Lessi lentamente, scandendo dentro di me ogni singola sillaba.

Certificato di adozione

Era tutto vero. Non era la mia immaginazione. C'era scritto proprio il mio nome in tutti quei fogli che sapevano di vecchio.

Rose Dwight Anderson

Sapevo che ero nata il 4 luglio del 1997, ma non da Melissa Clarkson.

Cecile dunque non era mia madre. E Mitch non era mio padre.

La mia vera madre si chiamava Melissa Clarkson, ed era nata a Mainwood il 12 aprile del 1972.

Sul mio vero padre non c'era scritto nulla, invece.

Ritrovai tra quei documenti anche i dati dei miei genitori adottivi, Mitch e Cecile.

Distolsi lo sguardo da tutti quei fogli, li posai nella cartellina.
Guardai fuori dalla finestra dello studio la pioggia che adesso aveva incominciato a cadere incessante, violenta.

Mi alzai, mi avvicinai alla finestra.

Mi sentivo vuota dentro.
Devastata.
Come se una granata fosse appena esplosa nel mio cervello, e tutto ciò che era intorno a me fosse diventato confuso, incerto, privo di importanza.

Piansi, perché fu l'unica cosa che mi venne naturale fare. Piansi a lungo, da sola, davanti a quella finestra.

Quando riuscii a riprendermi e a ritrovare il fiato per respirare, provai a pensare a ciò che avevo appena scoperto.

C'erano mille domande che si rincorrevano all'impazzata nella mia testa, ed io da sola non sarei stata in grado di trovare nessuna risposta.

Pensai al mio padre adottivo. Non mi sarei mai abituata a vederlo in quel modo.
Mi aveva cresciuta lui, assieme a mia madre, e per me non sarebbe mai cambiato nulla.

Ma ero arrabbiata, sconvolta, triste.

Perché nessuno dei due me ne aveva mai parlato?

Mi sedetti nuovamente alla scrivania, ripresi in mano l'articolo del Post in cui si parlava dell'omicidio di Melissa Clarkson, la mia vera madre.

Lo lessi e lo rilessi, cercando di assimilare tutte quelle parole, tutti quei dati.
Era stata assassinata nella propria abitazione, ed io ero stata ritrovata in una camera d'albergo in seguito ad una telefonata anonima alla Polizia da parte di qualcuno.
Perché ero lì?

Accesi il computer di mio padre ed andai su Google. Digitai il nome di mia madre, l'anno e il giorno dell'omicidio e premetti invio.
Nel frattempo presi il telefono e composi il numero di mio padre è quello di mia mamma a Saint Claire. Ma nessuno dei due mi rispose.
Osservai i diversi link riportati da internet riguardanti l'omicidio e cliccai sul primo.
Non trovai nulla di diverso da quanto descritto nell'articolo del Post.
Ne aprii un altro, ma niente.
Tornai sul motore di ricerca e cambiai  la dicitura che avevo digitato.
Scrissi "Omicidio Melissa Clarkson, Charleston, 1998, sviluppi".

Lessi attentamente tutti gli articoli che uscirono, e riuscii a scoprire che non era mai stato trovato un colpevole.
A quanto pareva, il caso era rimasto irrisolto e probabilmente dopo alcuni anni era stato archiviato dalla Polizia di Charleston in quel limbo che accomunava tutte le vittime che non avevano trovato giustizia né pace.
Mia madre Melissa era una di quelle.

Mi alzai, mi strofinai gli occhi, uscii da quello studio.
La testa mi scoppiava, il cuore mi batteva ancora forte.
E soprattutto, se mai fosse stato possibile, adesso mi sentivo ancora più sola di prima.
Avrei voluto parlare con i miei genitori, ma continuavano a non rispondere al telefono.
Per avere delle risposte avrei dovuto aspettare che mio padre ritornasse a casa.

Ma non ero in grado di resistere tanto a lungo.
C'era un uragano dentro di me.

Un vortice di domande, rabbia, pulsioni incontrollabili e tristezza.

Decisi che l'avrei raggiunto al suo studio a Charleston. Non potevo più aspettare.

Dovevo sapere.

Presi la mia borsetta, mi infilai un paio di scarpe e mi avviai verso la porta quando, improvvisamente, sentii le chiavi che da fuori entravano nella toppa.

La porta di casa si aprì e mio padre Mitch si materializzò davanti a me.

Lo guardai negli occhi, e feci di tutto per riuscire a contenere la rabbia che da dentro gridava di voler uscire fuori, ovunque.

Ma non ce la feci.

Abbassai lo sguardo e, mentre lui si avvicinava a me, lasciai che il nodo che nuovamente mi si era formato in gola si sciogliesse.

Piansi, e fu un pianto liberatorio.
Un insieme di emozioni contrastanti che si schiantavano contro un muro invisibile, lasciandomi dentro più triste e più ferita di quanto avessi mai potuto immaginare.

Fu qualcosa che, prima di quel momento, non avevo mai provato nella mia vita.

Rose e lo SconosciutoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora