Capitolo 39. Ammetti che mi vuoi vicino

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"Era presa da quella bocca. Pura di forma, accesa di colore,

gonfia di sensualità, con un'espressione un po' crudele

quando rimaneva serrata".

Gabriele D'Annunzio

JACK

Forse le stringo troppo la mano perché emette un lieve verso di dolore, ma non posso farne a meno. Stanford non è mai stato un tale peso per la mia sanità mentale, o forse è il soggetto in questione che tengo per mano che mi sta facendo uscire fuori di me.

La domanda che sorge è cosa io stia facendo o dove di preciso la stia portando. La mia priorità ora è quella di non cacciare armi contro di lui e quella feccia di banda che si porta dietro e controllare questo strano istinto che ho di tenere lei per me, senza che qualcuno possa neanche azzardarsi a guardarla.

E ce ne sono in giro che la guardano.

Io, a malincuore, sono uno di quelli. E se non l'avessi fatto a quella ragazza, senza nessuno in giro, l'avrebbero invasa in maniera disgustosa e il solo pensiero aumenta istinti omicidi innescati nella mia mente contorta.

Spalanco una porta ed è un'aula per fortuna vuota, chiudo la porta dietro di me e finalmente la guardo. La spingo contro la parete perché deve spiegarmi il motivo della sua facilità a mettersi nei guai.

Sono furioso e ho bisogno di sfogarmi. Sento che il cervello non controlla più nulla, solo l'istinto. Ma l'istinto mi ha portato dritto da lei e non so cosa non mi fece emanare l'ordine di sparare seduta stante a quella gentaglia.

Il mio prossimo obbiettivo giornaliero sarà quello di sterminarli uno per uno per quello che hanno osato pensare di fare.

"Mi fai male". Con un filo di voce mi indica la mia mano sulla sua, lasciandogliela noto che si è arrossata e lei se la massaggia con una delicatezza che non mi appartiene.

"Perché?" Le alzo il viso per fare in modo che mi guardi. "Perché finisci sempre per andare da lui? Ti attrae per caso? Vuoi che ti ammazzi una volta per tutte o che ti prenda come ostaggio? Rispondimi".

La mia voce è alta e la vedo appiattirsi alla parete nonostante mantiene i suoi occhi caldi contro i miei.

"Non è colpa mia. Stavo semplicemente andando a lezione e ha cercato di aggredirmi. E tu stai facendo lo stesso".

Si mette le braccia al petto come per proteggersi e io prendo le distanze da lei. Sono fuori da ogni valore comportamentale che mi sono prefissato di mantenere. Ma con lei ogni mio principio imposto non esiste più. Questa cosa mi sconvolge.

"Sei stata avvertita, devi mantenere le lezioni a casa. Al sicuro". Le ricordo. "E se non ci fossi stato in quel momento? Cosa sarebbe successo, Madison?"

Cerca di andarsene ma poso entrambe le mani sulla parete attorno a lei, facendo rumore. Lei si immobilizza, attraversando con gli occhi le vene dalle mie dita fin sotto alla camicia. È in trappola. Di nuovo.

"Perché sei rimasta?" Dopo la vicenda in quel locale, non mi capacito di capire come non sia scappata. Perché non ha paura, perché si fida di noi.

E soprattutto, i miei fratelli la stanno condannando a morte consapevolmente e ne sono deluso. Sembro l'unico che cerca di salvarla. E non capisco perché io, ragazzo senz'anima, mi stia prendendo la briga di... proteggerla.

Mi disgusto solo a pensarci.

"Non sono affari tuoi".

"Questa cosa riguarda tutti noi. Non fare la difficile e rispondimi".

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