Capitolo 49

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Rebecca appoggiò la tempia sul vetro del finestrino e sospirò. L'autobus sovraffollato sballottava a destra e sinistra la marea di studenti rumorosi che tornavano a casa.

Quel giorno era stata fortunata: sgusciando come una biscia era riuscita ad accaparrarsi un posto nelle prime file assiepate davanti alle porte del mezzo e aveva trovato posto a sedere.

Cercando di scansare il ragazzino con i capelli ritti sopra la testa accanto a lei che gesticolava animatamente, prese le cuffie dallo zaino e premette play quando l'icona comparve sullo schermo del telefono.

La musica riuscì a distrarla per alcuni attimi, poi i sensi di colpa tornarono a sussurrarle nella testa: piccole dita scheletriche che atrofizzavano con il loro tocco tutti i bei pensieri su cui riuscivano a mettere le mani. Era sollevata che Marika non la considerasse la causa di tutto, ma lei si sentiva così.

Le condizioni di suo padre erano stabili, sempre in bilico tra risvegliarsi e smettere di respirare. Sua madre era diventata il fantasma di se stessa. La vedeva a malapena, passava tutte le ore che non era a lavoro in ospedale. Lei aveva smesso di andarci così di frequente. Vedere suo padre sul lettino inerme e sua madre distrutta la faceva sentire impotente e le stritolava il cuore in una morsa dolorosa.

La canzone cambiò e il ragazzino accanto a lei le finì addosso per colpa dell'autista che in rotonda scambiava il pullman per un'auto da rally.

Quando l'inclinazione del mezzo tornò accettabile, il ragazzino si scusò e lei gli fece cenno di non preoccuparsi.

Sfruttò quel momento per lanciare un'occhiata in giro. Tutti sembravano ridere e scherzare, sollevati che la giornata di scuola fosse finita. Per lei era il contrario. Finché era in classe, con Marika accanto, riusciva a placare almeno un po' i demoni nella sua testa, ma fuori la massacravano.

La canzone cambiò e partì una con la base lenta e malinconica. La tolse prima che gli occhi le si riempissero di lacrime. Aveva bisogno di ritmo, di movimento. La musica doveva essere un'alleata, non un nemico alla sua fragile stabilità psicologica.

Soddisfatta del pezzo commerciale che le invase le orecchie, riappoggiò la testa contro il vetro. Mimò il testo della canzone con le labbra e si infastidì quando una chiamata la interruppe sul ritornello.

Abbassò lo sguardo sul display e aggrottò le sopracciglia. Matteo Bellanovi non l'aveva mai chiamata. La vergogna le imporporò le guance al ricordo di come si fosse aggrappata a lui fuori dalla discoteca. Rispose con un brutto presentimento alla bocca dello stomaco.

«Ciao, Matteo. Sono sul pullman, quindi probabilmente non capirò niente.»

«Marika è con te?»

Un macigno le schiacciò il petto. «No. È andata a casa, perché?»

I sensi di colpa risero della sua voce tremante. Cosa hai fatto stavolta, Rebecca? le sussurrarono graffianti.

«Perché mi ha chiamato Jack. È preoccupato. Avrebbe voluto chiamare te, ma non ha il tuo numero. Sei sicura che sia a casa?»

Lo udì a malapena tra uno schiamazzo e una risata degli altri studenti. Nonostante ci fossero decine di adolescenti in pieno sviluppo ormonale racchiusi in troppi pochi metri quadrati, le parve comunque che l'aria raggelasse. Tremò. «Perché dovrebbe essere da un'altra parte?»

«Non lo so. Jack ha parlato di un messaggio, ma non ho capito. Quando gli ho detto che non sapevo dove fosse ha buttato giù. Tu sei sicura di non saperlo? Ho provato a chiamarla, ma non mi ha risposto.»

La mente di Rebecca scorse come un vecchio rullino di negativi tutte le ore che avevano passato insieme. La conversazione a ricreazione aveva toccato temi scottanti, ma niente che non fosse diventato l'abitudine dell'ultimo periodo. Le aveva raccontato del bacio con Jack, quello era nuovo, ma l'aveva vista felice, preoccupata ma felice, niente che potesse spingerla a compiere qualche cavolata. Poi una frase le attraversò le sinapsi e la sua mente si immobilizzò. Senza accorgersene strinse più forte il telefono.

«Rebe? Ci sei sempre?»

Marika non l'aveva pronunciata a ricreazione, ma dopo essere rientrata in classe all'ultima ora. All'inizio le era parsa strana, ma poi l'amica aveva lasciato cadere il discorso come se non fosse niente di importante. La ripeté a fior di labbra.

«Come? Rebe non ti ho sentito.» L'apprensione trasudava dalla voce di Matteo.

Rebecca deglutì mentre la paura le serrava lo stomaco. «Ha detto che avrebbe sistemato le cose.»

Per alcuni attimi dall'altro lato del telefono non le arrivò nessun suono, poi Matteo imprecò.

«Cazzo! Come cazzo ho fatto a non riconoscerla?»

Rebecca rabbrividì. «Matte, cosa—»

«C'era la macchina di Sandro Menna parcheggiata fuori scuola e stamani ho visto Andrea arrivare in moto. Chi cazzo stava aspettando?»

All'immagine di Marika in macchina con quell'uomo, i sensi di colpa nella sua testa banchettarono con i nuovi frammenti che si staccarono dalla sua anima ormai a brandelli. Le venne la nausea.

«No. È impossibile. Lei non lo farebbe...» mai. La voce l'abbandonò sul finale rendendosi conto che non era vero. Se le era venuta un'idea per sistemare le cose e quella comprendeva Sandro Menna, lei si sarebbe infilata nella sua macchina senza pensarci, buttandosi in avanti come aveva già fatto quel finesettimana.

Si accorse di essersi alzata in piedi solo per l'occhiata stralunata che le rivolse il ragazzino accanto a lei, lo stesso che le rifilò parole poco carine quando lo spintonò di lato per avvicinarsi alle porte, ma lei non lo udì. Necessitava di uscire da quella gabbia su gomme prima che il cuore le cedesse per la paura.

«Scendo alla prossima fermata, Matteo. Cosa facciamo?»

Doveva essere una stupida storia d'amoreWhere stories live. Discover now