Capitolo 35

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Matteo entrò nel parcheggio e Marika si catapultò sullo sportello del passeggiero prima ancora che il veicolo si fermasse del tutto. Lo aprì trafelata e come si richiuse la portiera alle spalle, lui ripartì sgommando, provocando un rumore sordo con lo stridio delle ruote sull'asfalto che le fece accapponare la pelle.

Mentre aspettava che arrivasse, la sua testa si era riempita di frasi ed epiteti poco carini da rivolgergli, ma ora che se lo ritrovava accanto non sapeva come iniziare. A differenza di quella mattina a scuola, Matteo aveva lasciato sciolti i capelli riccioli e se li era pettinati all'indietro con il gel; indossava una camicia bianca con le maniche arrotolate fino ai gomiti e, intorno al collo, brillava una catenina d'argento. Era molto elegante, ma lei era troppo preoccupata per notare come in quel momento fosse più bello che mai. L'unica cosa che la raggiunse fu l'odore della sua pelle: sapeva di profumo da uomo e tabacco. Era abbigliato a festa e ricordò la musica che aveva sentito dall'altro lato della cornetta quando l'aveva chiamata. Era venuto via in fretta da una discoteca per venire a prenderla.

«Cosa è successo? Rebecca dov'è?» pronunciò queste domande dopo qualche attimo di silenzio, mentre lui teneva gli occhi fissi sulla strada davanti a sé e le mani strette sul volante. Lo sguardo di lei si soffermò su quest'ultime, sopra il dorso era impresso il timbro di un locale, e le sue pupille si sgranarono quando notarono le nocche sbucciate.

«Matteo, cosa—»

La interruppe sbuffando.

«Avete fatto un casino, Marika. Tu e Rebecca, scambiandovi.»

Nell'abitacolo calò il gelo. I sensi di colpa le strinsero la gola e fu costretta a fare appello a tutta la sua forza di volontà per ricacciare indietro le lacrime.

Lui non le diede il tempo di rispondere perché continuò: «Non chiedermi come perché non lo so, ma il padre di Andrea lo ha saputo e li ha convocati entrambi, Jack e Rebecca. Loro non lo sanno, ma stanno andando da lui».

Il gelo prese possesso pure di tutte le sue terminazioni nervose. Rabbrividì.

«Perché mi hai chiamata, Matteo?» mormorò voltandosi verso di lui.

Il ragazzo serrò la presa sul volante e le lanciò un'occhiata fugace. Da quando era salita era la priva volta che le loro iridi si incontravano.

«Perché altrimenti non me l'avresti mai perdonato e non voglio deluderti ancora.»

Il suo cuore sussultò. Gli occhi di lui erano carichi di un pentimento che le parve sincero e per qualche attimo la spiazzò. Preda delle troppe emozioni forti che le stavano scuotendo il petto, le parole le sfuggirono dalle labbra.

«Perché mi hai lasciata andare giovedì?»

Matteo frenò di fronte a un semaforo rosso e nell'attesa che scattasse il verde spostò lo sguardo fino a incrociare quello di lei. Gli sudavano le mani. «Perché forse avevi ragione quando mi hai definito un ipocrita. Ho fatto il moralista quando sapevo benissimo di essere più in torto di te e mi dispiace essermene accorto solo ora.»

Marika rimase in silenzio mentre le sue iridi non riuscivano a staccarsi da quelle verdi di lui. Sperava di ricevere tutt'altra risposta. Questa l'aveva solo confusa.

Come scattò il verde, Matteo ripartì e pochi minuti dopo accostò la macchina a un marciapiede. Poco più avanti, una folla di giovani era stipata sotto un'insegna al neon che riportava in caratteri cubitali il nome di una delle più rinomate discoteche della città: il Genis. Marika non ci era mai stata perché l'ingresso era permesso solo ai maggiorenni, ma ne aveva sentito parlare. Lei e Rebecca avevano già stabilito che di ritorno dalle vacanze, quell'estate, il locale sarebbe stata la loro prima tappa da neomaggiorenni, ma la frase che pronunciò Matteo le suggerì che avrebbero cambiato idea. «Il padre di Andrea è il proprietario della discoteca da un paio d'anni. Jack e Rebecca dovrebbero già essere qui.»

Marika sentì l'ansia stringerle la gola. La brutta sensazione che le premeva sulla bocca dello stomaco era la medesima che aveva provato prima di ogni consegna, solo che le altre volte Jack era riuscito ad attenuarla un po' con le sue parole, Matteo, invece, si limitò a scendere dall'auto in silenzio.

Lo seguì fino all'ingresso, ma lui superò la folla e continuò a camminare fino a una porta più piccola presieduta da un buttafuori con la faccia torva. Sollevò la mano per mostrare il timbro sul dorso. «Andrea Menna mi attende nel privé e lei è con me» concluse indicandola con un gesto del capo.

Cercò di rimanere impassibile di fronte all'occhiata penetrante che le rivolse l'uomo e come lui si spostò di lato per lasciarli passare, rilasciò il fiato che non si era accorta di aver trattenuto. Matteo le tese una mano e vi si aggrappò sperando che l'aiutasse a trovare la forza per mettere un piede davanti all'altro. Aveva paura di quello che avrebbe trovato una volta dentro e, alla fine, fu il pensiero di Rebecca a farla muovere.

Dopo l'ingresso si apriva uno stretto corridoio lievemente in salita, illuminato da delle luci al neon rossastre. Delle pennellate dorate interrompevano la monotonia delle pareti nere a ogni passo, accompagnandoli, insieme alla musica che arrivava ovattata nell'ambiente angusto, fino a una porta socchiusa e laccata di nero. La scritta Privé, in caratteri dorati, occupava tutta la parte superiore.

Più si avvicinavano, più il volume della musica elettronica aumentava di intensità alla stessa maniera dei battiti del cuore della ragazza e come Matteo poggiò la mano sulla maniglia, prese un respiro profondo: era terrorizzata.

La porta si aprì e fu costretta a socchiudere gli occhi per l'intensità delle luci che la investì. Non appena si attenuò li riaprì e quello che vide le fece sprofondare il cuore nel petto. Rebecca era in piedi nel mezzo alla saletta accanto a Jack e aveva il volto rigato dalle lacrime.

Doveva essere una stupida storia d'amoreWhere stories live. Discover now