Capitolo 38

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L'aria fresca della sera le accarezzò il volto inumidito dalle lacrime. Un gruppo di ragazze alticce stavano sghignazzando accanto all'ingresso del locale, implorando, in maniera teatrale, il buttafuori di farle entrare.

«Dai, secondo te queste tette non sono di una diciottenne?»

Risero tutte scomposte, ma i loro schiamazzi si interruppero quando lei, Jack e Rebecca gli passarono davanti.

«Ehi, ma state bene?» biascicò una moretta con le unghie laccate di rosso.

La ignorarono tutti e tre superandola e lasciandosi alle spalle il chiasso della calca.

Camminavano uno dietro l'altra in silenzio. Nessuno aveva più fiatato da quando aveva detto sì.

Matteo Bellanovi, che era rimasto ad aspettarli appoggiato al cofano della macchina, vedendoli arrivare si alzò in piedi, ma il suo volto perse colore quando incrociò i loro.

Fece per raggiungere Marika, ma Rebecca, che era la prima della fila, gli buttò le braccia al collo e iniziò a singhiozzare.

Lui le accarezzò impacciato la schiena, ma i suoi occhi carichi di confusione cercarono quelli di Marika. Anche se non la espresse ad alta voce, la domanda che gli albergava nelle iridi era la stessa che aveva posto la ragazza all'ingresso.

Marika sostenne lo sguardo per qualche attimo, poi il peso del mondo le ricadde sulle spalle. Le cedettero le ginocchia e si accasciò sul marciapiede sudicio con il corpo scosso dai singhiozzi. L'impatto con l'asfalto fu doloroso, ma neanche se ne accorse. Cacciò fuori con le lacrime tutta la paura che aveva accumulato nell'ultimo quarto d'ora.

Jack rimase in piedi a guardarla con le labbra tremanti serrate e le braccia abbandonate lungo i fianchi. Voleva consolarla come Matteo stava facendo con Rebecca, stringerla tra le braccia e sussurrarle che sarebbe andato tutto bene. Ma non era la verità. Non sarebbe andato tutto bene. Lui non aveva il diritto di consolare nessuno e ancora meno aveva quello di essere salvato, ma lei si era messa nel mezzo comunque. Aveva firmato la sua condanna per proteggerlo, aveva intrecciato la vita con la sua distrutta. Non se lo meritava.

Quest'ultima consapevolezza fu troppo. Un dolore più penetrante di quello del pugno ricevuto lo colpì al cuore togliendoli il fiato. Si portò una mano al petto in cerca di aria. Conosceva quella sensazione.

«Non avresti dovuto» le mormorò cercando di non perdere il controllo sulle gambe che avevano preso a tremargli. Poi si voltò e si allontanò il più veloce possibile, cercando un angolo buio dove nascondersi prima che l'attacco di panico lo spezzasse.

 Poi si voltò e si allontanò il più veloce possibile, cercando un angolo buio dove nascondersi prima che l'attacco di panico lo spezzasse

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Nell'abitacolo gravava un silenzio pesante. Matteo stava guidando con un occhio sulla strada e l'altro sullo specchietto retrovisore per assicurarsi che Marika stesse bene.

Quando Jack se n'era andato, lui si era scostato da Rebecca e, dopo essersi assicurato che si reggesse in piedi, era andato da Marika. Le aveva appoggiato i palmi delle mani sulle guance bollenti e le aveva asciugato le lacrime, poi l'aveva aiutata a risollevarsi.

«Mi hai mentito. Avevi promesso che me l'avresti detto ogni volta.»

La delusione che era trasudata dalle parole di Rebecca sporcate dai singhiozzi l'aveva colpito sebbene non fosse rivolta a lui. Marika l'aveva incassata scuotendo la testa e abbassando lo sguardo.

«Mi dispiace.» Non era stata in grado di aggiungere altro.

Pur sapendo che non era il momento giusto, la preoccupazione l'aveva spinto a domandarlo comunque.

«Cos'è successo?»

Nessuna delle due aveva fiatato. Nello sguardo di Marika aveva cercato una risposta, ma lei gliel'aveva negata continuato a tenere la testa bassa. Alla fine si era offerto di riportarle a casa.

Aveva appena svoltato nella via dove abitava Rebecca quando lei si mosse per la prima volta da dopo essere partiti: dalla borsa tolse il telefono che le aveva lasciato Jack e lo lasciò sopra il cruscotto.

«Quella è casa mia» gli comunicò con un filo di voce indicando la villetta a schiera con l'indice.

Inserì la freccia e accostò al marciapiede. Il ticchettio del segnale luminoso risuonava come una campana.

«Rebe...»

Marika provò ad avvicinarsi al sedile anteriore dov'era seduta, ma lei la bloccò.

«Non stasera, Marika.» E scese.

Rimasti soli, Matteo chiese a Marika se volesse venire davanti, ma lei rifiutò con un filo di voce. Ripartì solo dopo che il portone si richiuse alle spalle di Rebecca e attese qualche altro minuto prima di parlare.

«Lo ha lasciato qui perché devi prenderlo tu?»

Marika non gli rispose, ma dallo specchietto la vide annuire con lo sguardo perso fuori dal finestrino.

Una fitta fastidiosa gli partì dalle nocche sbucciate quando strinse lo sterzo per mitigare la rabbia e i sensi di colpa. Desiderò essere di nuovo di fronte ad Andrea per tirargli il pugno che gli aveva risparmiato. Si vergognava di averlo definito amico per anni.

«Mi dispiace, Marika. Sapevo che non era un santo, ma non potevo immaginare questo. Avrei detto qualcosa, se avessi saputo che suo padre intendeva coinvolgere te o Rebecca avrei—»

«Ti prego. Non nominarlo più.»

Il tono pietoso con cui l'aveva supplicato lo convinse a ristare in silenzio finché non si fermò davanti casa sua.

«Puoi passarmelo, per favore?»

Si allungò per prendere il cellulare, poi si voltò per consegnarglielo. Nel farlo, le dita sfiorarono le sua; la pelle di Marika era calda. Cercò i suoi occhi, ma lei li teneva abbassati. Il suo volto era stravolto.

«Non ho scusanti per come mi sono comportato, Marika. Ma voglio che tu sappia che anche per me sei importante. Farò tutto quello che posso per aiutarti.»

Lei sollevò lo sguardo fino a incrociare il suo e Matteo quasi sussultò. Non le aveva mai visto le iridi marroni così vuote e distanti.

«È troppo tardi, Matteo. Non puoi fare più niente.»

Doveva essere una stupida storia d'amoreWhere stories live. Discover now