Capitolo 25

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Marika si portò il bicchiere alle labbra e bevve una generosa quantità di frullato. Rebecca era seduta davanti a lei, intenta a mangiucchiare delle noccioline e a scuotere la testa con disappunto.

Il Nicco Bar si trovava in fondo alla strada dove abitava Rebecca; era un locale piccolo e pulito, con due tavolini di plastica rossi posti accanto all'ingresso, sopra il marciapiede. Marika e Rebecca erano sedute lì fuori, per godere degli ultimi raggi del sole.

Rebecca aveva ricevuto i risultati delle analisi nel primo pomeriggio e stavolta i medici avevano deciso di dimetterla, dopo averle consigliato di restare a riposo per qualche giorno e di pensare a richiedere il sostegno di uno psicologo per farsi aiutare nella gestione emotiva della storia di suo padre. Dopo era tornata a casa e Marika era subito andata a trovarla.

«Dai, Rebe. Lo sai anche tu che per il momento è la soluzione migliore.»

Lei scosse la testa con più forza e un ricciolo biondo le cadde sulla fronte alta. «No, Mari. Non posso lasciartelo fare. Non è giusto e troppo rischioso.»

Marika sospirò e posò il frullato sul tavolino, poi strinse le dita intorno al bicchiere di vetro. Una piccola ruga le solcava la fronte, era preoccupata. «Lo capisco, Rebe, ma sarebbe solo per qualche giorno. I dottori ti hanno detto che lo svenimento è stato causato dal troppo stress e sappiamo entrambe che non è dovuto solo a papà.»

Quella mattina, Marika si era svegliata con la notifica di un messaggio da parte di Jack dove la informava di non rispondere ai messaggi dei clienti e che per il momento le uscite serali erano annullate, ma che si doveva tenere pronta per eventuali consegne.

«Lo so che non è solo per la storia dell'incidente, Mari, ma saperti fuori a fare quello al posto mio sicuramente non mi fa stare tranquilla o al riposo.»

Una signora con uno spolverino chiaro che portava a passeggio un piccolo Jack Russel, udendo le parole di Rebecca le rivolse un'occhiata curiosa, ma entrambe la ignorarono e aspettarono in silenzio che non fosse più a portata d'orecchio.

«Ma per questa settimana le uscite sono annullate, Rebe. Me l'ha detto Jack stamattina. L'unica cosa che dobbiamo fare è ignorare i messaggi e questo lo posso fare io senza nessun pericolo. Ti sto chiedendo solo di lasciarmi il cellulare.»

Rebecca fissò le iridi marroni in quelle più chiare dell'amica, si prese i capelli tra le mani e se li spostò sull'altra spalla. Era la quinta volta che compieva quel gesto da quando avevano intrapreso la conversazione. «E se cambiassero idea? Io non posso stare con l'ansia di saperti a loro disposizione tutto il tempo. Se ti scrivessero di notte per una consegna? No, Mari. No. Non voglio trascinarti in questa cosa. Ti sono grata per avermi sostituito ieri sera, ma ti assicuro che ero più in ansia che quando ci sono andata io.»

Le punte delle labbra di Marika si incurvarono verso il basso e i suoi occhi si riempirono di tristezza. Per la prima volta da quando aveva memoria le parve che Rebecca non la capisse, che tra loro ci fosse un muro. «Io mi sono sentita così tutta la settimana, Rebe, ed è vero, non è stato poi tanto diverso da quello che ho provato lunedì sera, ma nessuna delle due sensazioni è paragonabile a quello che ho vissuto ieri mattina quando mamma mi ha detto che eri finita all'ospedale. Quindi ti prego, almeno per questa settimana non farmi stare con il pensiero che possa accadere di nuovo. Per favore.»

Vedendo l'espressione sul suo volto, a Rebecca vennero le lacrime agli occhi e abbassò la testa. Era consapevole di come quella cosa stesse distruggendo anche lei. Dentro di sé capiva come si sentisse, a lei si era rotto qualcosa nel petto quando sua madre l'aveva chiamata per dirle che suo padre era all'ospedale, però aveva paura che potesse accaderle qualcosa di brutto per colpa sua e questo non se lo sarebbe mai perdonato.

Per qualche minuto restarono entrambe in silenzio. Rebecca si stava rigirando tra le dita la bustina di plastica verde delle noccioline, mentre Marika non staccava gli occhi da lei. Alla fine, Rebecca sospirò, scosse la testa e riportò lo sguardo in quello dell'altra. «Solo per questa settimana, Marika. Però devi promettermi che mi dirai tutte le volte che esci, va bene?»

Marika non riuscì a trattenere un sorriso e si alzò per andare ad abbracciarla. «Grazie» le mormorò non appena rispose alla stretta, ma lei scosse di nuovo la testa. «Non dovresti ringraziarmi perché ti cedo il posto in un giro di spaccio di droga, Mari. Dovresti urlami contro che sono una pessima amica.»

Marika la strinse più forte. «Sono stata io a chiedertelo e poi non potrei desiderare un'amica migliore. Non dire mai più una sciocchezza del genere. Va bene?»

Rebecca appoggiò la fronte sopra la sua. L'espressione sul suo volto era diventata più seria. «Sei l'unica cosa che mi sta impedendo di crollare, Marika. In queste settimane mi sento come se fossi sull'orlo di un precipizio. Tutte le corde che mi tenevano su si sono spezzate, è rimasta solo la tua a impedirmi di cadere; perciò promettimi che farai attenzione. Non sopravviverei se ti dovesse succedere qualcosa di brutto per colpa mia.»

Marika fissò la migliore amica negli occhi. Le parole che appena pronunciate avevano aumentato la sua determinazione. Non avrebbe permesso che Rebecca cadesse, avrebbe tenuto quella corda intatta anche a costo di farsi sanguinare le mani. «Te lo prometto, Rebe. Andrà tutto bene.»

Doveva essere una stupida storia d'amoreWhere stories live. Discover now