Capitolo 16

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Marika lanciò un'occhiata preoccupata all'amica che le sedeva accanto dritta come un fusto. Entrambe avevano mascherato le occhiaie causate dalla notte insonne con una generosa passata di fondotinta. In realtà Rebecca non era rientrata tardi. All'una e mezzo aveva scritto a Marika chiedendole di scendere per aprirle il portone; temeva che lo scatto del chiavistello avrebbe fatto troppo rumore.

Nonostante pensasse che non fosse necessario – la madre di Rebecca era rientrata poco dopo mezzanotte e si era a malapena affacciata in stanza per augurargli la buonanotte prima di raggiungere la camera trascinando i piedi – l'aveva accontentata.

Una volta aperto aveva cercato di scorgere nel volto dell'amica un qualsiasi segno che le suggerisse com'era andata la serata, ma l'ingresso era illuminato solo dalla poca luce dei lampioni che riusciva a passare le imposte non perfettamente chiuse, perciò non era riuscita a cogliere niente e Rebecca si era limitata a rassicurarla che stava bene e che la serata era stata tranquilla.

Non convita l'aveva pregata di raccontarle qualcosa di più, ma lei l'aveva abbracciata prima ancora che terminasse la frase.

«È andato tutto bene davvero, Mari. Jack è un bravo ragazzo. Adesso possiamo per favore andare a letto? Mi sto reggendo a malapena in piedi.»

Per la seconda volta aveva provato a decifrare l'espressione sul suo viso. Non sapeva se crederle o meno. C'era qualcosa, nel tono di voce che aveva usato, troppo arrendevole e accondiscendente per Rebecca, che non la convinceva. Ma il messaggio era chiaro, perciò si era fatta da parte e l'aveva seguita in silenzio su per le scale.

Dopo, in camera, l'aveva osservata mentre prendeva un pigiama pulito dal primo cassetto della cassettiera e non le era sfuggito come avesse tenuto gli occhi bassi, evitando di farli cozzare con quelli che avrebbe visto riflessi se solo avesse alzato la testa. Anche questo non era da lei. Non era da Rebe, che quando andavano insieme in centro non perdeva mai occasione per specchiarsi in tutte le vetrine. Non lo faceva in maniera plateale, ma spesso lanciava un'occhiata sfuggente alla sua immagine riflessa mentre camminavano.

A quel punto stava di nuovo per chiederle come stesse, ma lei aveva richiuso il cassetto con un gesto secco e si era spostata in bagno senza neanche guardarla.

Marika aveva aspettato, seduta sul letto con le spalle ricurve, che uscisse da lì, ma quando l'aveva fatto, l'occhiata profonda che le aveva rivolto l'aveva spinta a restare in silenzio. Si era spostata di lato per farle spazio e Rebecca si era seduta accanto a lei, poi le aveva buttato le braccia al collo e aveva iniziato a piangere piano. In risposta, l'aveva stretta fortissimo.

«Ti racconterò tutto, solo non adesso. Per favore» l'aveva supplicata tra un singhiozzo e l'altro.

Marika le aveva baciato delicatamente la fronte, anche lei con gli occhi pieni di lacrime. «Va bene» si era limitata a risponderle, poi l'aveva stretta ancora un po'. «Io sono qui, qualsiasi cosa sia successa e quando vorrai parlarne, io sono qui.»

Rebecca aveva annuito piano e l'aveva ringraziata, dopo si erano sdraiate ed erano rimaste tutta la notte abbracciate, ma nessuna delle due era riuscita a riposarsi per più di qualche ora. In più, Rebecca alle cinque e mezzo era sgusciata fuori dal letto, si era cambiata ed era andata a correre.

In quel momento, in classe, Marika stava combattendo con tutta sé stessa per tenere la testa dritta e non adagiarla sul libro di Italiano per prendersi un'oretta di meritato riposo. Colpa sì della notte passata quasi in bianco, ma anche la flemma con cui la professoressa, un donnone con la faccia tonda e gli occhi sporgenti, spiegava la poetica del Leopardi non la stava aiutando di certo a rimanere sveglia.

Rebecca, invece, sembrava attentissima. Con la matita sottolineava le parti più importanti dei paragrafi, e segnava, con la sua grafia piccola e ordinata, lungo i margini bianchi del libro di testo, le integrazioni che la professoressa stava facendo.

Marika si lasciò vincere dalla stanchezza e poggiò il gomito sinistro sul banco, per adagiare poi la testa sopra la mano. Come se fosse una conseguenza inevitabile, le sue palpebre si abbassarono e il suo respiro iniziò a farsi più...

«Lenzini!» l'urlo della professoressa risuonò per tutta l'aula.

Marika sobbalzò e riaprì gli occhi di scatto. La prima cosa che mise a fuoco furono le espressioni allibite dei suoi compagni e delle sue compagne, insieme alla smorfia preoccupata sul volto di Matteo Bellanovi, infine, lo sguardo furente che la professoressa le stava rivolgendo. In realtà non era un'insegnate severa, però se c'era una cosa che proprio non tollerava erano gli studenti che si addormentavano durante le lezioni.

Mentre stava implorando tutti i suoi neuroni di svegliarsi per mettere in fila qualche parola che l'avrebbero salvata da un rapporto assicurato, Rebecca attirò l'attenzione della donna alzando la mano.

«Professoressa, mi scusi, è colpa mia se Marika stamattina è particolarmente stanca. Stanotte è rimasta sveglia insieme a me perché non stavo bene.»

Lo sguardo della donna si addolcì di colpo. Tutti a scuola conoscevano la situazione di suo padre. Senza aggiungere altro, la professoressa scosse la testa e riprese a spiegare da dove si era interrotta.

Non appena tutta l'attenzione della classe ritornò sulla spiegazione, Marika si girò verso Rebecca e le rivolse uno sguardo ammirato. «Grazie» le mimò con le labbra.

Rebecca,allora, sorrise e le prese la mano sotto il banco. «Anche io sono qui, Mari. Anche io sono qui.»

Doveva essere una stupida storia d'amoreWhere stories live. Discover now