Capitolo 39

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Claudia accarezzò la guancia della figlia, poi le diede un bacio sopra la fronte.

«Per qualsiasi cosa chiamami, okay? Ho già avvertito Elisabetta e mi ha confermato che possono uscire da lavoro quando voglio se hai bisogno di me.»

Marika annuì e stropicciò il lenzuolo tra le mani. «Grazie, mamma.»

Le lievi rughe intorno alle labbra della donna si tesero quando le sorrise bonaria.

«Figurati. Sono felice che stai meglio. Ieri ero preoccupata.»

Marika abbassò lo sguardo sulle mani che stavano torturando la coperta.

«Sì, sto meglio» la rassicurò, anche se non era del tutto vero. Il fisico sembrava essersi ripreso dal malessere che il giorno prima l'aveva tenuta bloccata al letto, ma la sua mente e la sua anima erano a pezzi. Minuscoli, microscopici pezzi.

Claudia le sorrise di nuovo e le passò una mano sulla fronte, poi si alzò dal letto. «Allora io vado. Nel frigo ci sono le patate lesse che ti avevo preparato ieri sera. Se ti ci vanno per pranzo puoi riscaldarle.»

Marika si sforzò di annuire e di ignorare la nausea che l'aveva colta al solo pensiero di mangiare. Era a digiuno da sabato sera, quello che aveva ingerito il giorno prima non le era rimasto nello stomaco per più di venti minuti.

«Buona giornata, mamma.»

Claudia si fermò sulla porta. «Se il malessere ti riprende chiamami, non farmi stare in pensiero» e se ne andò solo dopo aver ricevuto un gesto d'assenso da parte sua.

Marika aspettò di sentire il portone che si richiudeva, prima di sospirare e lasciar ricadere le spalle sul letto. Scosse la testa e si portò i palmi delle mani sul volto. Un sussulto scomposto le lasciò le labbra. Voleva piangere, ma aveva finito le lacrime.

Rimase in quella posizione per alcuni minuti cercando di regolarizzare il respiro, poi prese il poco coraggio che le rimaneva e tastò il comodino in cerca del cellulare. Le dita inciamparono nel filo dell'abat-juor, poi si strinsero intorno all'apparecchio.

Spostarlo davanti al volto le provocò una fitta fastidiosa al braccio, ma il vero dolore la colpì al petto quando realizzò che Rebecca non aveva ancora risposto ai suoi messaggi. Aprì la chat con un nodo alla gola e la scorse.

Marika – 0.25 a.m.

Scusami. Te ne avrei parlato prima o poi. Ti prego, perdonami...

Marika – 1.32 a.m.

Ho visto che hai visualizzato il messaggio. Lasciami la possibilità di spiegarti. Possiamo vederci domani?

Marika – 3.30 a.m.

Rebe non riesco a dormire e malapena a respirare.

Marika – 5.23 a.m.

Ho vomitato e penso che mi sia salita la febbre. Non ce la faccio. Ti prego rispondimi.

Marika – 8.40 a.m.

Mia mamma e la tua si sono sentite, mi ha detto che anche tu non stai bene. Possiamo parlarne?

Marika – 11.16 a.m.

Anche tu non riesci nemmeno ad alzarti dal letto?

Marika – 12.19 a.m.

Ho vomitato per la quarta volta...

Marika – 3.39 p.m.

Okay. Mi va bene se per ora non vuoi più avere a che fare con me. Ma ti prego, dimmi almeno come stai.

Marika – 6.54 p.m.

Comunque tutte le scelte che ho preso, forse sbagliate, l'ho prese pensando a te. L'ho fatto per te, quindi per favore non odiarmi...

Marika – 8.13 p.m.

Mi odi?

Marika – 10.09 p.m.

Ti voglio bene, Rebe, e puoi continuare a ignorarmi quanto vuoi, ma questo non cambierà.

Marika – 11.46 p.m.

Perdonami ti prego.

Chiuse la chat e lasciò che il telefono le scivolasse dalle mani. La colpì sullo sterno, poi rimbalzò e ruzzolò accanto a lei. Si rannicchiò su se stessa e si tirò le lenzuola sopra la testa. Era stremata. Si portò una mano alla bocca, la strinse a pugno e la usò per soffocare un grido.

Spezzata. Ecco come si sentiva.

Rimase in quella posizione finché non iniziò a dolerle il fianco. Si spostò portando la coperta con sé e il telefono cadde a terra. Lo udì picchiare e poi scivolare sul parquet.

Un altro singhiozzo non seguito dal pianto le lasciò le labbra. Si chinò per raccoglierlo invidiandolo un po': avrebbe voluto essere lei a picchiare la testa, forse in quella maniera avrebbe zittito i sensi di colpa.

Mugolando per il fastidio dello stomaco vuoto schiacciato contro il materasso e contorcendosi troppo per il suo corpo debilitato, riuscì ad afferrare l'apparecchio, ma lo sguardo le cadde sulla borsa appoggiata davanti al comodino. C'era un altro telefono che non aveva avuto ancora la forza di controllare.

Sospirò sconfitta, si spostò un ciuffo biondo e appiccicaticcio che le era scivolato sulla fronte e afferrò la borsa. La tirò su mugolando per il dolore quando dovette contrarre gli addominali per rimettersi dritta, poi la portò sulle gambe.

Il telefono si era scaricato. Lo attaccò al cavo e premette sul tasto d'accensione. Attese che lo schermo si illuminasse con un nodo alla gola, ma non seppe interpretare l'emozione che le invase il petto quando non trovò messaggi da leggere. Si ritrovò a digitarne uno lei e a inviarlo prima ancora di realizzare a pieno cosa stesse facendo.

Marika – 8.53 a.m.

Come stai?

Rimase a fissare le parole con sguardo assorto, ignorando le conversazioni sopra. Aveva bisogno di parlare con qualcuno che era lì. Matteo Bellanovi le aveva scritto più volte il giorno prima, ma non voleva sentirlo. Gli era grata per averla riaccompagnata a casa e per averla aspettata, però non lo aveva ancora perdonato per quello che era successo prima di sabato.

La risposta le arrivo dopo poco e un brivido le corse lungo la schiena. D'istinto bloccò il telefono e per alcuni minuti se lo rigirò tra le mani senza trovare la forza di leggerla. Magari era una consegna. Forse pure lui la odiava, a ragione, per la situazione orribile in cui l'aveva costretto.

Un sospiro rumoroso le sfuggì dalle labbra. Patetica. Oltre a spezzata, bugiarda e pessima amica, si sentiva pure così. Maledisse Sandro Menna e il suo stupido figlio.

Fu con rabbia che aprì il messaggio. Leggendolo, però, la sua espressione si addolcì e il petto le si scaldò un po'.

Jack – 8.57 a.m.

Ammaccato e preoccupato per te. È da ieri che non penso ad altro. Ti va se ci vediamo?

Doveva essere una stupida storia d'amoreUnde poveștirile trăiesc. Descoperă acum