Capitolo 29

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Marika era seduta su una panchina fuori da scuola, le gambe raccolte al petto e la testa appoggiata sopra le ginocchia. Quel giorno la sua classe era uscita un'ora prima perché la prof dell'ultima ora era assente.

Aveva accompagnato Rebecca alla fermata del pullman, come faceva tutti i giorni, poi, invece che andare a casa, era tornata davanti scuola e si era seduta su quella panchina di legno. Non c'era uno spazio del materiale nodoso che non fosse stato risparmiato dalle scritte degli studenti. Su quelle assi c'era di tutto: confessioni d'amore, speranze, dichiarazione di odio, scritte con i più disparati colori.

Non si sentiva bene, il suo cuore era a pezzi. Per la prima volta da quando ne aveva memoria aveva mentito alla sua migliore amica e il senso di colpa la stava logorando. Dopo una notte passata in bianco, quando quella mattina aveva incrociato il volto sereno di Rebecca non se l'era sentita di raccontarle quello che era successo.

Tutte le volte che aveva provato a chiudere gli occhi, le sue orecchie si erano riempite delle grida animalesche degli spettatori dell'incontro. Non era riuscita a prendere sonno. Davanti all'amica aveva dato la colpa della sua pessima cera a un mal di pancia che non le aveva fatto chiudere occhio.

Rebecca, che si fidava ciecamente di lei, le aveva creduto e la mattinata era filata uguale a tutte le altre. L'unica nota stonata era stata la disapprovazione che aveva scorto sul volto di Matteo Bellanovi appena i loro occhi si erano incrociati quando era entrata in classe, ma poi il giovane l'aveva ignorata per il resto del tempo. Lei era sicura, però, che lui avesse capito tutto.

La campanella che segnalava la fine della quinta ora suonò e in pochi minuti il piazzale della scuola si riempì di studenti e delle loro voci.

Marika sollevò il volto e li osservò in silenzio. La maggior parte di loro rideva spensierata con i compagni che avevano a fianco, però c'era anche qualcuno che camminava da solo, a testa bassa, con le cuffie negli orecchi. Seguì con lo sguardo un ragazzino biondo che faceva parte dell'ultima categoria. Le ricordava Jack.

Senza volerlo, cominciò a pensare a lui. Si domandò dove fosse e come passasse le giornate. Non credeva che frequentasse sempre la scuola, anche perché a occhio le sembrava almeno qualche anno più grande di lei, ma forse erano le sue iridi stanche che la confondevano. E, per di più, il borsone logoro che si portava sempre appresso le faceva temere il peggio.

La prima volta che l'aveva visto a casa di Andre Menna, aveva pensato che gli servisse per trasportare la droga, ma poi aveva capito che per quella la maggior parte delle volte bastavano delle tasche. Forse lì dentro aveva tutta la sua vita.

Il pensiero la intristì e riabbassò la testa sulle ginocchia. Sapeva che doveva alzarsi e andare a casa, ma era giovedì e sua madre aveva il pomeriggio libero da lavoro. Non voleva pranzare con lei, temeva di non essere in grado di sostenere il suo sguardo per tutto il pasto senza far trasparire quello che aveva fatto la sera prima.

Persa nei suoi pensieri, non si accorse che qualcuno le si era seduto accanto finché il ragazzo non si schiarì la voce. Trasalì e si voltò di scatto, non credendo ai propri occhi: Edoardo Mattonai, comodamente appoggiato allo schienale della panchina, si stava sistemando il polsino della felpa verde che indossava.

«Continua a guardare avanti finché non sono usciti tutti» le ordinò con voce in apparenza calma.

Marika sbatté le palpebre per capire se si trattasse di un'allucinazione, ma lui rimase lì in tutta la sua magnificenza. Troppo stanca per discutere, fece come le aveva detto e riappoggiò la testa sulle ginocchia. Non vedeva l'ora che quella giornata finisse.

Edoardo Mattonai aspettò che il cortile della scuola si fosse svuotato prima di riprendere a parlare.

«Tu e la tua amica state giocando a un gioco pericoloso.»

Le si bloccò il respiro in gola e piano si voltò verso di lui. Si sentiva un tamburo impazzito al posto del cuore.

«Come?» gli domandò cercando di controllare il tremito della voce.

Il ragazzo scosse la chioma castana e un ciuffo gli ricadde sulla fronte alta, aggiungendo un ulteriore particolare al suo profilo perfetto.

«Lenzini, non prendermi per il culo. So che eri tu ieri sera al capanno insieme a Jack.»

Per un attimo, la Terra smise di ruotare su se stessa e il mondo fu coperto da una coltrina impermeabile che attutì tutti i suoni, o almeno, a Marika parve così, pure il suo cuore perse qualche battito. Iniziò a tremare e si strinse più forte le gambe al petto.

«Non ho idea di cosa tu stia parlando, Mattonai.»

Il giovane sbuffò e si voltò verso di lei per fulminarla con le iridi ambrate.

«Smettila di mentire. Ti ho vista e quando sei scappata Jack ti ha chiamata per nome, quindi pure lui sai che non sei Rebecca.»

Marika provò a ricacciare indietro le lacrime che minacciavano di scapparle dagli occhi. Era terrorizzata e lo sguardo di lui non l'aiutava.

«L'hai detto a qualcuno?»

Edoardo scosse la testa e smise di guardarla. Per lei, l'espressione sul suo volto era indecifrabile e trattenne il fiato finché non udì la risposta.

«No, altrimenti avrebbero già fatto visita alla tua amica.»

Sentendo nominare Rebecca, le fragili barriere che ancora era riuscita a tenere erette crollarono e si ritrovò con il volto bagnato dalle lacrime.

«Ti prego, non dirlo a nessuno. L'abbiamo fatto perché—»

Edoardo la interruppe con un gesto della mano. «Non mi interessano i motivi. Volevo solo avvertirvi che se continuerete a giocare con il fuoco prima o poi qualcuno rimarrà bruciato, nemmeno troppo metaforicamente.»

Marika impallidì e le sue pupille si sgranarono all'inverosimile.

Senza aggiungere altro, Edoardo Mattonai si alzò in piedi e si sistemò di nuovo le maniche della felpa, poi si voltò un'ultima volta verso di lei. «Questa conversazione non è mai avvenuta, ma vi conviene smettere, per il vostro bene e per quello di Jack.» Poi se ne andò lasciandola a tremare e piangere.

Doveva essere una stupida storia d'amoreWhere stories live. Discover now