Capitolo 26

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Marika scese le scale condominiali cercando di fare il minor rumore possibile e facendosi luce con la torcia del telefono. Erano le undici e dieci, non voleva rischiare di svegliare qualcuno.

Jack le aveva scritto venti minuti prima informandola che erano stati chiamati per una commissione. Lei era rimasta qualche minuto a fissare il vecchio cellulare con le mani fra i capelli cercando una scusa convincente da rifilare ai suoi genitori sul perché volesse uscire a quell'orario di mercoledì sera, ma la sorte era venuta in suo aiuto. Suo padre si era affacciato alla porta di camera sua per informarla che lui e la madre stavano andando a letto, così aveva aspettato che si coricassero prima di cambiarsi, attraversare il corridoio in punta di piedi e uscire di casa.

Mentre il cuore le martellava forte nel petto, scorse dai vetri della porta in fondo alle scale il motorino di Jack parcheggiato dall'altro lato della strada. Il ragazzo vi era seduto sopra con il capo chino in avanti, il casco sulla testa, un secondo tra le mani e il borsone tra i piedi.

Lo raggiunse con passo spedito, voltandosi più volte per controllare che la luce della sala di casa sua non si accendesse. Per fortuna la finestra in camera dei suoi genitori dava sul cortile interno e non sulla strada, come invece faceva la sua.

La via era silenziosa e illuminata dalla luce gialla dei lampioni. Non c'era anima viva a parte loro e un gatto pezzato che si muoveva agile tra le gomme delle auto parcheggiate sul ciglio della strada.

Quando lo raggiunse, Jack le rivolse un'occhiata che non riuscì a decifrare e scosse la testa. «Il cambio con la tua amica doveva essere solo per una sera.»

Marika si irrigidì, ma tese comunque la mano in avanti, invitandolo a porgerle il casco. «Rebecca è stata dimessa ieri pomeriggio dall'ospedale, per questa settimana la sostituisco io.»

Jack alzò un sopracciglio e puntò le iridi verdi, che sotto la luce dei lampioni brillavano come due gemme, in quelle marroni di lei. «Non mi avevi detto che l'avevano ricoverata.»

Scrollò le spalle e si voltò di nuovo a lanciare un'occhiata impaziente al palazzo. I sensi di colpa per aver mentito ancora ai suoi genitori la stavano divorando e l'ansia che potessero scoprirla le attanagliava lo stomaco.

«Te lo racconto dopo, possiamo andare adesso?»

Jack seguì la traiettoria del suo sguardo e immaginò che dentro quella casa ci fosse qualcuno che la credeva al sicuro nel letto. Una morsa che non sentiva da un po' gli strinse lo stomaco, ma la ignorò. Non era il momento giusto per farsi assalire dalla malinconia, già era stato investito dall'apprensione quando aveva capito che anche per quella sera sarebbe stata Marika ad andare con lui.

«State rischiando, ragazze. Se scoprono che tu non sei Rebecca le cose potrebbero mettersi male.»

Un brivido le attraversò la schiena. Lo sapeva che era rischioso, ma ormai aveva preso una decisione. «Non lo scopriranno, Jack, almeno che non glielo dica tu.»

Il ragazzo sentì qualcosa guizzare nel petto, era la prima volta che lo chiamava per nome. «Di me non dovete preoccuparvi, posso sempre dire che non me ne ero accorto, anche perché siete veramente simili. Ma vi conviene non tirare troppo la corda, in questi ambienti non sai mai chi ti trovi davanti.»

Marika sentì la paura scorrerle sottopelle e le tornarono in mente i volti degli uomini dell'altra sera, ma cercò di scacciarli. «Ti ringrazio, anche da parte di Rebecca.»

Jack strinse le labbra in una linea sottile, poi le porse il casco. Visto quello che le portava a fare, non se li meritava i loro ringraziamenti, soprattutto per dove sarebbero andati quella sera. Il senso di colpa si mischiò all'apprensione e abbassò la testa. «Mi dispiace averti contatta così tardi, ma anche a me hanno avvertito solo ora» la informò con tono di voce stanco.

Marika indossò il casco e lo allacciò. «Non fa niente, mi avevi detto che sarebbe potuto succedere. Ora però possiamo andare, per favore? Non ce la faccio più a stare qui davanti.»

Jack annuì e tolse il motorino dal cavalletto centrale, poi le fece segno di salire. Stava per mettere in moto, ma quando lei gli passò le mani intorno alla vita e il calore gli si diffuse nel petto, lasciò andare il manubrio e si voltò all'indietro. Il senso di colpa lo stava logorando. Non poteva partire senza informarla.

«Il posto dove dobbiamo andare è particolare e frequentato da gente poco raccomandabile. Non so se te la senti, forse sarebbe meglio se tu rientrassi. Mi inventerò qualcosa.»

Marika sentì la paura correrle insieme ai brividi su per le braccia, lo sguardo di lui era serissimo. «Ti ringrazio per avermelo detto, Jack, ma lo sappiamo entrambi che non posso tornare dentro. La decisione non si ripercuoterebbe su di me.»

Lui annuì con sguardo grave. Non sapeva perché, ma si era aspettato che gli avrebbe risposto così. Il peso che sentiva sullo stomaco, però, non diminuì e si pentì di averla contatta. «Tu fai come l'altra volta, seguimi e fai quello che ti dico. Lunedì sera sei andata benissimo.»

Le labbra di Marika si tesero in un sorriso beffardo, ma le fece piacere che avesse provato a rassicurarla. «Stavo solo cercando di non scappare a gambe levate.»

«E allora riprova anche stasera. Cercherò di fare il prima possibile. Sei pronta?»

Marika lo fissò negli occhi lasciati in penombra dall'ombra proiettata della visiera. C'era qualcosa, in quelle iridi stanche, che la catturava ogni volta. Era pronta? No, per niente, ma annuì comunque. Ormai il passo verso l'abisso l'aveva fatto, sperò soltanto di non cadere.

Doveva essere una stupida storia d'amoreDove le storie prendono vita. Scoprilo ora